Era obiettivamente difficile negare l’evidenza, e infatti ieri pomeriggio dalla sala stampa di palazzo Chigi è arrivato il commento del premier-segretario. Renzi ammette la sconfitta e riconosce la vittoria «netta e indiscutibile» del Movimento 5Stelle. Ma nonostante il terremoto elettorale e le centinaia di migliaia di voti persi, si capisce che non ha alcuna intenzione di assumersene la responsabilità.

Dopo una scivolata nel politichese «sull’analisi di un risultato frastagliato…», nel dire che il voto ai pentastellati «non è un voto di protesta ma un voto di cambiamento», il leader del Pd invia un messaggio chiaro. Il grande consenso ricevuto dai giovani esponenti del M5Stelle non sarebbe il segno di una diffusa e forte protesta, non sarebbero voti “contro” ma voti “per” il cambiamento. A parte la stretta parentela tra protesta e cambiamento, questa forzata distinzione sembra piuttosto un modo per portare acqua al mulino della sua leadership.

Se le cose sono andate così male per il Partito democratico è perché lui non ha usato abbastanza il lanciafiamme, perché non ha rottamato i candidati che hanno perso (naturalmente viene in mente Fassino, protagonista, a Torino, dell’altra cocente sconfitta dopo Roma), perché i cittadini aspettano risposte. E lui è pronto ad offrirne una davvero speciale, così radicale e popolare, da potersi giocare la partita con i rivali a 5Stelle: la partita del referendum costituzionale. Come se niente fosse, si torna alla casella iniziale della sfida di ottobre.

In un paese normale, dopo un simile responso delle urne, volerebbe qualche testa. Ma il presidente del partito, Matteo Orfini, commissario del Pd a Roma, è invece pronto a smentire le sue dimissioni che, in fin dei conti, sarebbero dovute avendo gestito e condiviso la corsa del Pd verso la sconfitta, prima con la defenestrazione dell’ex sindaco Marino, poi con la candidatura di Giachetti. Anche le dimissioni sarebbero, per dirla con Renzi, un omaggio al cambiamento. Naturalmente comprese le sue dalla carica di segretario. Invece scarica la responsabilità sui candidati perdenti e per la resa dei conti l’appuntamento è alla prossima direzione tra un paio di giorni.

Un leader che perde voti, che è sfrattato dalle grandi città, che fallisce nel suo progetto di partito “omnibus”, che non sfonda in quell’elettorato di centrodestra che pure si era attribuito nel giudizio sul 40% delle elezioni europee, dovrebbe fare un passo indietro e delegare la ricostruzione del partito a qualcun altro. Ma non sarebbe più l’uomo solo al comando che ogni volta che perde rilancia la posta. Eppure i segnali di una probabile sconfitta, anche al referendum di ottobre, ultimamente ne sono arrivati e pure ben visibili.

Quando gli italiani andarono a votare in 13 milioni al referendum contro le trivelle, rispondevano così al suo invito all’astensione, e, ancor prima, alle ultime elezioni regionali quando in Emilia Romagna andò al seggio il 36% dei cittadini e quando perse un’altra grande città, Venezia. Si poteva già capire che cosa stava succedendo al partito e alla sua leadership. Il voto di domenica prosegue la serie negativa su questa stessa traiettoria. E presto vedremo se in autunno la grande sfida assumerà la forma del boomerang.