Lo hanno scritto e affermato in molti. Queste elezioni regionali consegnano una certezza non camuffabile: Matteo Renzi è stato seccamente sconfitto. È stato sconfitto il segretario del Pd e il presidente del Consiglio, non solo perché egli è stato un protagonista della campagna elettorale in prima persona e sino all’ultimo giorno. Ma perché le cifre mostrano, al di fuori di ogni dubbio, il forte arretramento numerico e politico del Pd, analizzato dai commentatori di ogni tendenza. Dove vince, significativamente, è per il peso specifico di singoli candidati, eccezione che conferma la regola.

E mai come in questo ultimo anno il Pd era diventato «cosa» di una sola persona e della sua ristretta cerchia di fedeli. Una identità totale che non ha sopportato scarti e distinzioni, sia dentro il partito che nel governo e in Parlamento. Ma la questione è un’altra. La domanda che occorre porsi è se questa sconfitta segna un incidente di percorso o se essa non apra una frattura irrimediabile nel meccanismo che Renzi aveva messo in piedi . E dunque, per dirla con Norma Rangeri, se essa costituisca «una sconfitta che riapre i giochi».

Per afferrare la portata strategica di questa sconfitta occorre brevemente rammentare le mosse vincenti compiute da Matteo Renzi. È evidente che un passaggio decisivo, il primo, più clamoroso, è stata l’alleanza diretta con Berlusconi. Il patto del Nazareno. Più spregiudicato di Letta, che si era fermato ad Alfano, Renzi (ah, questi cattolici intemerati!) ha scelto direttamente di portarsi in casa l’Orco, di stringere un patto con l’ Impresentabile. Il Berlusconi di allora era una perfetta anatra zoppa, ancora con tanto potere, ma privo di agibilità politica, come si diceva. Un avversario ideale per Renzi, che poteva persuaderlo facilmente del vantaggio reciproco delle sue mosse, tanto più che si trattava di scelte graditissime al capo del centro-destra.

L’iniziativa, urticante per tanti dirigenti del Pd, per la sua base e per i suoi elettori, è stata abilmente giustificata dalla necessità di coinvolgere anche l’avversario per riforme di portata costituzionale. Questo passo condensava una infinità di vantaggi. Intanto incassava l’ appoggio del grosso del centro-destra per fare approvare una legge elettorale su misura, destinata a rendere stabile il suo potere e ad accrescere in forme inedite il controllo dell’esecutivo sull’intero sistema politico. Una volta fatto ingoiare il rospo costituzionale, Renzi è passato al Jobs Act. Anche tale scelta racchiudeva più scopi. Ingraziarsi la dirigenza di Confindustria, cominciando a cementare un nuovo blocco col potere imprenditoriale e nello stesso tempo mostrare il proprio volto condiscendente ai voleri di Bruxells. È qui che i capi di stato dei singoli paesi ricevono l’investitura, come i cavalieri medievali.

Ma questi passaggi, lo scontro aperto con la Cgil e da ultimo il Ddl sulla «Buona scuola», hanno creato una novità la cui portata Renzi ha gravemente sottovalutato. Egli avrebbe voluto declassare i conflitti in casa Pd, come gli sgarbi inconcludenti di una minoranza. Ma ha fatto male i conti perché tale minoranza, sia pure inconcludente, ha mostrato un Pd diviso e lacerato, e questo ha rotto l’incanto. Perché incanto c’era stato nei confronti di Renzi, nei primi mesi di governo, con la distribuzione degli 80 euro e soprattutto con l’immagine di un partito che pareva aver ritrovato la propria unità e capacità d’azione sotto la guida di un comandante di grande energia e abilità tattica. Questa perdita di immagine egemonica ha colpito duramente Renzi. E per una ragione semplice. È oggi noto al più raffinato analista come al semplice cittadino, che il ceto politico è stato privato del suo antico potere. La rappresentanza degli eletti nelle istituzioni dello stato non sposta di un’oncia il destino di nessuno. Da qui il senso di inutilità del rito del voto. I dati dell’astensionismo intorno al 50% sono il timbro di autenticazione di tale certezza di massa. Ma chi ancora crede e spera dà il voto a realtà che appaiono dotate di una certa forza contrattuale, o appaiono nella loro radicalità anti-sistema. I partiti divisi, le forze piccole e sparse, sono percepite come un indebolimento ulteriore della politica. E comunque un Pd ritornato ai fasti delle lotte intestine precedenti ha perso un bel po’ di appeal, anche fra i potenziali elettori di centro destra, che Renzi contava di attrarre.

Ma il conflitto con la sinistra interna e soprattutto le scelte del governo hanno toccato radici profonde del consenso su cui si è retto sinora il Pd. E occorre rammentare. Per ragioni di inerzia culturale, e per vari altri fattori, il Pd, agli occhi di tanti italiani, è apparso come l’erede storico del vecchio Pci. Se anche per un intellettuale radicale come Mario Tronti, il Pd è ancora IL PARTITO, figuriamoci quanto tale identificazione abbia operato nella mente di semplici militanti ed elettori. E per questa larghissima fascia del popolo della sinistra – che in Italia è vivo e vegeto nonostante gli scongiuri degli avversari – Il Jobs act ha significato la licenziabilità e la ricattabilità dei dipendenti da parte del padrone. Mentre la Buona scuola e il preside-manager sono apparsi un cuneo lacerante dentro la comunità scolastica, un diversivo autoritario per non affrontare il problema centrale: la remunerazione secondo standard europei dei nostri insegnanti.

Dunque, queste scelte di destra sono state punite dagli elettori di sinistra, ma non premiate dagli elettori di destra. Perché, visto che il centro-destra è ancora più diviso del fronte avversario? Credo che una risposta sia da cercare nel fatto che pressoché nulla è cambiato nella condizione della grande maggioranza degli italiani. La pressione fiscale si mantiene elevata, sia al centro che in periferia, ed è anzi in crescita, la disoccupazione non da segni di cedimento, salari e stipendi sono fermi, aumenta senza sosta il part-time. Nessuno di questi dati è stato scalfito dall’azione di governo, e Renzi va in giro spandendo sorrisi di letizia per la ripresa in atto. Ma tale forma di comunicazione è altamente controproducente: mostra agli italiani solo la sua strabiliante capacità di mentire. Non è tutto. Le forze di centro-destra, ma anche il movimento 5S, conducono una politica aggressiva nei confronti dell’Ue, ormai responsabile sempre più decisiva delle nostre disastrose condizioni. Ma Renzi, dopo i motteggi orgogliosi su « l’Europa cambia verso», dopo un semestre europeo senza sussulti, ha mostrato il suo perfetto allineamento ai voleri di Bruxelles, il solito perbenismo europeista di chi fa i compiti a casa. Con un ministro dell’Economia, Padoan, che sembra davvero credere nello screditato catechismo dei padroni dell’Ue. E questo ormai gli italiani non lo perdonano più a nessuno.

Dunque, il progetto di Renzi è crollato. E ciò non è avvenuto per imperizia. Se si è onesti occorre riconoscere che l’uomo è senza storia e senza cultura, privo perciò di visione. È solo tatticamente bravo: non basta per un grande paese nelle nostre condizioni. Con queste elezioni la destra italiana ha annusato il sangue e sa che può tornare a vincere, anche incrementando, come fa Salvini, la guerra tra poveri, visto che la riduzione del welfare e la disoccupazione l’alimentano. E ha sperimentato, anche con Toti, quanto sia conveniente opporsi a Renzi invece di collaborare. Questa stampella dunque verrà meno. A sinistra per il momento non c’è gran che, mentre resta in piedi la forza oppositiva dei 5S. Un movimento, com’è stato osservato, che ha mostrato la rapida maturazione di un gruppo dirigente giovane, radicato nelle realtà locali, malgrado l’estremismo infantile di Grillo e Casaleggio. Il bipolarismo che doveva mettere ai margini le «frange estreme» è a pezzi. Il partito della nazione resta un sogno di regime da riporre nel cassetto.