Sono vent’anni che urbanisti, architetti, sociologi, si interrogano sulle sorti della periferia italiana senza trovare soluzioni accettabili che ne migliorino le condizioni. La «politica» considera i quartieri di edilizia pubblica solo come bacino elettorale, usa parole inadeguate per confrontarsi con le istanze, sacrosante, degli abitanti, impedendo di fatto a chiunque di proporre soluzioni progettuali adeguate. Poi nel 2013 Napolitano nomina senatore a vita un architetto: Renzo Piano. Come prima azione del suo mandato attiva il progetto del «rammendo» della periferia italiana, dove coinvolge un gruppo di giovani architetti seguiti da tutor per lavorare su tre casi: Torino, Catania, Roma.

L’idea iniziale consiste nel ricucire, attraverso funzioni pubbliche, il tessuto disomogeneo e frammentario delle periferie italiane. Purtroppo questa intenzione di buona volontà non si attua come ci si aspettava. Se da una parte gli architetti hanno determinato la periferia odierna, braccio armato di una politica incompetente e arretrata culturalmente, dall’altra cercano di rimediare proponendo vie di fuga dal degrado sociale e spaziale. È sbagliato e presuntuoso pensare che l’architettura da sola riesca a salvare la periferia, occorre che la politica interpreti i desideri e i bisogni dei cittadini senza demagogia. Servono soldi e idee. Sui soldi Renzi ha messo a disposizione 200 milioni di euro per il «rammendo», un termine consolatorio da vecchia nonna con nipoti un po’ riottosi (i periferici).

Il progetto Periferie elaborato da Piano è stato presentato come un qualcosa di salvifico, invece è una operazione mediatica che non solo non risolve i problemi, ma non considera nemmeno i progetti antecedenti che sono stati fatti sulla periferia, un importante archivio di idee da cui partire. I costi sostenuti per l’operazione parlano chiaro: 96.998 per i compensi dei giovani progettisti, 25mila euro per rimborsare i loro viaggi, quelli dei tre tutor e di 11 consulenti. In tutto il 2014 si è chiuso con una perdita, rispetto ai 153.641 euro dello stipendio da senatore a vita, di 62.759 euro (fonte Il Sole 24 ore). Forse con le stesse cifre si poteva produrre di più. Da un architetto della bravura di Piano ci si poteva aspettare un’azione parlamentare per far approvare la legge sulla qualità dell’architettura, in itinere dal 1998, o linee guida per il recupero delle periferie avendo una visione globale del problema. Invece ci troviamo con analisi superficiali dei luoghi, senza comprendere quali siano i reali problemi, con esiti banali e scontati dei progetti presentati.

Al di là dell’architettura, il processo di miglioramento della periferia non può avvenire senza un chiaro progetto politico. La politica deve rendersi conto che sono mutate le esigenze delle comunità, occorre inserire nuove funzioni nei quartieri (skatepark, spazi per concerti, palestre, biblioteche, verde pubblico, teatri), pensare a forme di diradamento degli edifici esistenti cambiandone la tipologia. Non è un caso che laddove ci sia una estensione in orizzontale degli alloggi e minor numero di persone, i conflitti siano molto minori. All’opposto, nei sistemi edilizi intensivi come Tor Bella Monaca o Tor Sapienza, il conflitto nasce dall’assenza di spazio e dalla sovrapposizione dei nuclei famigliari miscelando legalità con illegalità nella speranza che facciano comunità. Qui sta l’errore storico della politica che usa linguaggi vecchi e obsolete pratiche operative, ignorando i desideri degli abitanti. Per comprendere meglio una possibile via di fuga c’è un interessante studio del 2004 sulle periferie francesi realizzato dagli architetti Lacaton e Vassal, del quale sono stati realizzati tre progetti. Il progetto consiste nella ristrutturazione degli edifici costruiti negli anni Settanta, riducendo il consumo energetico, ridisegnando le facciate per renderle più armoniche, modificando le piante degli alloggi e inserendo nuove funzioni comuni.

Nel caso Roma del gruppo G124 (il cui nome deriva dal numero della stanza del senatore-architetto), il progetto riguarda il sottoviadotto della tranvia che doveva collegare Saxa Rubra alla Laurentina. L’esito progettuale, che scimmiotta i progetti del collettivo di artisti-architetti Stalker (attivi dal 1995 e autori del progetto Osservatorio Nomade al Corviale con buoni esiti progettuali) è il collocamento di due container (al cui interno sono previsti un laboratorio urbano e uno spazio per la manutenzione del micro parco) una serie di gomme-fioriere, pallet riciclati come pavimento, con l’intenzione di ricreare uno spazio «pubblico». Un approccio discutibile di fronte ad un problema storico della mobilità tra il quartiere e il resto della città, dove il vero progetto poteva essere, come dalla delibera di iniziativa popolare (11mila firme raccolte) ratificata dal consiglio comunale nel febbraio 2006, il completamento della tranvia. Ma ancora più stonata è l’idea di riconvertire il sedime della tranvia in una pista ciclabile, quando dall’altra parte della strada c’è il meraviglioso parco delle Sabine tutto da ripensare.

Nel quartiere Librino a Catania progettato su piano di Kenzo Tange (1970) erano previsti servizi sociali e spazi pubblici, immersi nel verde, che ogni architetto aveva progettato in ogni quartiere della periferia italiana, fin dal periodo Ina-Casa. Ma come sempre non erano stati realizzati trasformando in poco tempo il quartiere, complice il solito minestrone di problemi, in un ghetto sociale. Qui il G124 individua ancora il verde quale elemento centrale della proposta, ma da solo non può reggere l’assenza di spazi e politiche per la comunità. Anche a Catania si dimentica il grande lavoro svolto, fin dal 2002, da Antonio Presti, che ha innescato un processo di rinnovamento identitario di Librino attraverso un nuovo immaginario definito dagli artisti visivi. Quello che si vuole segnalare è il totale disinteresse da parte di Piano per chi, come Presti, Stalker e molti altri hanno fatto esperienze nella periferia con buoni risultati. Affrontare la periferia solo con lo sguardo dell’architetto è un peccato originale che ne impedisce una lettura complessa e articolata.

Infine nel caso torinese le dimenticanze riguardano il progetto Periferie del Comune di Torino (1997-2005) all’interno del programma Urban II dell’Unione Europea che, tra gli altri, ha coinvolto il quartiere di Mirafiori. Lì l’associazione a.titolo ha rivitalizzato il quartiere con opere degli artisti Lucy Orta, Massimo Bartolini, Stefano Arienti, Claudia Losa, all’interno del progetto della Fondation de France «Nouveaux Commanditaire». Un progetto di mediazione tra artisti e comunità, dove l’artista invitato realizza un’opera permanente che rimane nel quartiere. Nel caso torinese gli artisti hanno costruito spazi architettonici. Invece il G124 ha analizzato la Borgata Vittoria partendo da un parco. L’esito. un workshop sulla città bene comune, appare ancora una volta debole evidenziando come il progetto di recupero di un quartiere non possa basarsi unicamente sul verde pubblico.