La capitale del Nepal è un continuo contrasto tra la morte che affiora negli occhi e la vita che fa capolino nelle orecchie. Camminando per le vie del centro, è necessaria attenzione: bisogna stare attenti a non inciampare.

Lo sguardo sbircia sempre un po’ verso l’alto, mentre le gambe sono pronte a buttarsi a terra, o a correre, perché una casa in piedi, un davanzale, la protuberanza di un tempio, con la prossima scossa potrebbero essere un pericolo superiore agli squarci nei marciapiedi o alla precarietà del terreno. Lo scontro potenziale, però, non è solo con i detriti o le macerie, bensì con le tante persone che, a piedi, in macchina o in tre in motorino riempiono e restituiscono vita alle strade, nonostante siano ancora in tanti ad avere paura. Anche se non esiste un vero e proprio centro, Thamel è l’area più frequentata e quella che offre più servizi. È anche una delle più colpite. Molti negozi sono ancora chiusi ed è difficile trovare da mangiare, a parte le pannocchie arrostite per la strada.

Le case che non sono crollate vengono sorrette dai pali, mentre qualcuno si arrampica sui piloni della luce per cercare di sbrogliare quel dedalo di fili elettrici, che corre come una mega arteria per tutta la città. Tra l’asfalto squarciato e le crepe negli edifici, le persone cercano un ritorno alla normalità. Gli ambulanti espongono la frutta e la verdura tra i calcinacci, una trave a terra diventa il banco del pesce essiccato, le sciarpe di cashmere svolazzano in mezzo alla polvere. Il terremoto dello scorso 25 aprile, il «Gotkha quake», ha provocato 7.557 vittime secondo l’ultimo bollettino del Ministero dell’Interno. Oltre 14 mila i feriti e un numero non ancora calcolabile di dispersi. Anche se per comprare una scheda sim è necessario lasciare nome e impronte digitali, il censimento della popolazione, specie nelle zone di montagna, viene fatto a singhiozzo e non permettere di formulare delle stime precise. Nell’ordine delle migliaia, sono anche le persone la cui casa è andata distrutta; a queste si aggiungono tutti quelli che, pur avendone una ancora in piedi, non si fidano a tornare perché si dice sia pericoloso. Tundikhel è il più grande campo di soccorso allestito nel centro della capitale. È un ampio prato rettangolare che non offre ripari dal sole di giorno e dal calo delle temperature di notte.

Di solito viene usato per le parate militari, le manifestazioni sportive, i concerti o per far pascolare le mucche.

Adesso è una distesa di tende, di tutti i colori e dimensioni. Molte in realtà sono solo sacchetti del riso, cuciti insieme e tenuti sospesi da due pali incrociati alla meglio. Qui vive un migliaio di persone. Chi ha potuto, negli scorsi giorni, ha trovato una sistemazione alternativa; per chi è rimasto le giornate trascorrono tutte uguali. «Non c’è niente di più di quello che vedi». A parlare è Prakash, che prima gestiva un banco della frutta e della verdura al mercato; ora il tempo è scandito dalle file per la consegna dei pasti e i bisogni piegati al ciclo delle stagioni. «Ci alziamo presto e andiamo a dormire quando fa buio – racconta – perché manca la luce elettrica.

Ci sono solo una ventina di bagni e scappando dal terremoto non abbiamo fatto in tempo a prendere dei vestiti di scorta. Mangiamo quello che ci dà l’esercito, due, se siamo fortunati, tre volte al giorno». Le razioni sono cibo secco, biscotti o noodles.

«Cuciniamo qui – continua – con un fornello a gas e l’acqua delle taniche. Con l’arrivo della stagione delle piogge quello che si poteva salvare della mia casa sarà del tutto irrecuperabile. A parte i volontari, quasi nessuno, eccetto i bambini parla inglese. Rajan ha 10 anni: «qua non c’è niente da fare e a scuola non ci posso andare perché è stata distrutta», dice, mentre si offre per fare la guida.

«Adesso ho una casa tutta azzurra», dice indicando il colore della tenda che divide con la sua famiglia e un altro nucleo dal giorno successivo al terremoto. Le tende a disposizione non bastano per tutti, così molte famiglie che prima non si erano mai viste, si sono trovate a vivere sotto lo stesso telo. Sono in totale 17 persone, per la maggior parte bambini. La più piccola ha 4 anni, un sorriso sdentato e delle fratture scomposte ad entrambe le gambe, che dopo il terremoto non sono ancora state sistemate. È seduta in braccio alla madre che racconta come si vive da sconosciuti in meno di 10 mq.

«Quando siamo arrivati non ci conoscevamo ma come la maggior parte degli abitanti di questa vallata apparteniamo a una delle tante caste della comunità newar. Noi siamo induisti, loro invece sono cristiani. Abbiamo imparato a vivere insieme e a dividere anche la coperta. La prima notte è stato difficile dormire; forse è la necessità ma non ci sono mai stati problemi».

Le ricerche dei dispersi, intanto, sono state ufficialmente sospese. Qualcuno a scavare comunque non rinuncia, i miracoli avvengono. L’altro giorno, un anziano signore è stato estratto vivo dalle macerie. 105 anni e 200 ore trascorse sotto quel che resta della sua casa. A parte qualche ferita al labbro, è in buone condizioni di salute. Le speranze di trovare dei sopravvissuti però sbiadiscono col passare delle ore. Le ambulanze continuano a trasportare corpi a Pashupatinath, uno dei templi induisti più importanti di tutto il continente. Si trova alla periferia orientale di Kathmandu, lungo le rive del fiume Bagmati.

In questo tempio dedicato a Shiva si celebrano la maggior parte dei funerali degli induisti, predominanti nel paese, che cremano i loro morti vicino ai corsi d’acqua. Dopo il terremoto, il tempio è un andirivieni di barelle e portatori di legna. In mezzo al fumo il colpo d’occhio è arancione, come il colore del sudario e delle ghirlande di calendula attorno alla pira o come la polvere dei fiori. La banchina del fiume è affollata di gente ma non c’è rumore: si può sentire solo lo scoppiettare delle fiamme e le preghiere dei monaci.

I cadaveri vengono trasportati- 3 parenti per lato- fino al ghat, la pira funeraria. Per 3 volte vengono fatti ruotare in senso antiorario prima di essere appoggiati sui ceppi di legno e ricoperti di paglia. A quel punto, secondo la tradizione, viene dato fuoco alla bocca, riempita di burro chiarificato, semi di orzo e di sesamo nero. Se il defunto è il padre a farlo è il primogenito, l’ultimogenito se invece il defunto è la madre. Alle persone più ricche, sotto la lingua, vengono messi i gioielli del consorte e una moneta.

Le donne non sono ammesse alla cerimonia. Se ne stanno in disparte, in silenzio. Ci vogliono diverse ore perché le fiamme consumino tutto il corpo i cui resti vengono spazzati nel fiume. L’altare viene ripulito per il cadavere successivo in una sequenza ritmata che va avanti da giorni e così sarà per quelli a venire, fino a che la cerimonia non verrà celebrata per tutte le vittime di questo terremoto. C’è un tempo per ogni cosa, scriveva Coelho. Ora in Nepal è il tempo di piangere. Poi verrà quello di ricostruire.