Ha combattuto come un leone ma non ce l’ha fatta, e il cancro si è preso anche lui, che era il più giovane di tutti, il più bello, il più speciale per quella sua penna – anche lui rifuggiva dal computer – così abile a rivoltare le cose, i concetti, le idee, la storia fino a farne vedere l’altra, nuda realtà possibile, spesso più reale di quello che il senso comune, la tradizione, l’implacabile polvere del tempo ci hanno voluto far credere.

Anche Eduardo Galeano, come García Márquez, come tanti scrittori del suo tempo e della sua regione, ha cominciato, giovanissimo, come giornalista. Ed è curioso notare come, proprio questa professione, ritenuta una mera pratica utilitaristica della scrittura, ci abbia dato grandi maestri di stile. Giovanissimo, in una Montevideo che non immaginava ancora il dramma che si stava preparando per tutti i paesi del Cono Sud, ebbe la fortuna di far parte della redazione della rivista Marcha, una fucina di idee, un laboratorio di giornalismo, una scuola di etica che lui e altri collaboratori non hanno dimenticato. Spazzata via dai venti della repressione, Galeano ha attraversato il Mar del Plata per ricominciare, testardamente, a fare quel giornalismo di resistenza e di denuncia in Argentina ma l’avventura di Crisis è durata poco e Galeano ha dovuto fuggire e trovare rifugio a Calella, in Catalogna, in una Spagna ancora franchista. Era già autore di un reportage sul Guatemala, del suo best-seller Le vene aperte dell’America Latina, e di Canción de nosotros, sulla lotta armata, con cui ha vinto il Premio Casa de las Américas nel 1975 e di Giorni e notti d’amore e di guerra, anche esso Premio Casa nel 1978.

Era lì, a due passi dalla Barcellona degli anni del boom, dalla città della mitica agenzia letteraria di Carmen Balcells, dal luogo in cui nasceva, insieme a pettegolezzi e pugni fra Gabo e Mario Vargas Llosa, la grande stagione del romanzo dell’America Latina, eppure non ha mai voluto entrare in quel cerchio magico. Lasciava Calella per andare a testimoniare, dovunque lo si chiamasse, su ciò che accadeva nelle sue terre lontane, si teneva in disparte, sempre insieme a Elena la compagna a cui ha dedicato tutti i suoi libri. Era uno straordinario dicitore, dotato di una voce molto affascinante e lo sapeva. Nella sua scrittura, infatti, c’è tanto della sua oralità: la frase breve, l’effetto straniante, il tono suadente per raccontare anche l’orrore, anche la follia e l’insensatezza.

Quando Hugo Chávez, allora Presidente del Venezuela, mise nelle mani di Barack Obama Le vene aperte dell’America Latina (che balzò immediatamente ai primi posti nelle vendite del mondo intero), Galeano, che pure è stato amico ed estimatore dello scomparso presidente, è parso lamentarsene, e con ragione: quel libro, davvero rivoluzionario nel 1970, non rispecchiava più la mano di uno scrittore che, senza mai abbandonare la denuncia, la testimonianza e lo sguardo dal basso, era andato raffinando il suo stile fino a renderlo inconfondibile e unico, fatto di frasi essenziali che, senza mai essere patetico, commuovevano il lettore. Uno stile intriso di simpatia – oserei dire di affettuosità – per un’umanità spesso bersaglio di soprusi, a volte straordinaria per grandezza, altre deplorevole per debolezza. La sua passione per il calcio (Splendori e miserie del gioco del calcio) esemplifica bene la sua visione delle glorie e delle bassezze nel rito del gioco.

Dal 1992, l’anno delle celebrazioni per i Cinquecento anni della Scoperta dell’America, i libri di Galeano prendono un cammino più definito, Parole in cammino, A testa in giù, Le labbra del tempo, Il libro degli abbracci vogliono ricondurre il lettore su un cammino di libertà affettiva, intellettuale, politica, filosofica rimuovendo, uno per uno tabù resistenti e anacronistici. Le sue narrazioni, affascinanti come si dice fossero i racconti di Sherazade, incantano il lettore per l’abile gioco delle parole che Galeano ha saputo mettere in campo come guerrieri al servizio di chi voce non aveva o non sapeva farla sentire.
Ma, a mio parere, la sua opera maestra è la trilogia delle Memorie del fuoco, una vasta, straordinaria rilettura delle Americhe pari solo al Canto General di Pablo Neruda. Dalle brume del luogo comune, della storia scritta solo dai vincitori, dal coacervo di culture, lingue e religioni di quel continente che un tempo fu detto «nuovo», Eduardo Galeano ha saputo tirar fuori una memoria continentale che, come la vecchia Bibbia, fonda sulla parola la sua persistenza.