«Una guerra inutile, costosa e perfettamente evitabile». William Dalrymple, storico e scrittore, studioso appassionato e accanito esploratore della vasta area che da Istanbul arriva fino a Nuova Delhi, descrive così la prima guerra anglo-afghana. La battaglia per l’Afghanistan, come recita il sottotitolo del suo ultimo libro tradotto in italiano, Il ritorno di un re (Adelphi, traduzione di Svevo D’Onofrio, pp. 663, euro 34).

Un testo monumentale, erudito e scorrevole come un romanzo d’avventura, ricco di colpi di scena, spie e tradimenti, che narra la storia della «prima, disastrosa intromissione dell’Occidente in Afghanistan». È una storia vecchia, quella dell’armata britannica che nel 1839 invade la terra del Khorasan per insediarvi un sovrano fantoccio, Shah Shuja, inaugurando il Grande Gioco, la contesa tra le potenze europee per il controllo della regione. Ma è una vicenda che contiene «echi distinti delle avventure neocoloniali dei giorni nostri», spiega Dalrymple. Lo abbiamo incontrato a Lignano, dove ha ritirato il Premio Hemingway per il reportage.

I suoi libri vengono genericamente classificati come letteratura storica di viaggio, «non-fiction». E, in effetti, lei è un esperto viaggiatore, uno storico rigoroso e un ottimo scrittore. Trova che questa classificazione sia appropriata?
L’etichetta generica di non-fiction vale per tutti i miei libri, ma nella mia testa divido la produzione in due parti, alle quali aggiungo l’attività giornalistica. Da una parte ci sono libri come In Xanadu, Nove vite, Dalla montagna sacra. Sono veri e propri libri di viaggio, nei quali conta molto la mia esperienza diretta, il rapporto con i luoghi e le persone. Sebbene contengano elementi storici, sono libri contemporanei, sul presente. Dall’altra parte ci sono invece i tre volumi storici che ho scritto, Nella terra dei Moghul bianchi, L’assedio di Delhi e quest’ultimo, Il ritorno di un re. Anche qui i luoghi sono importanti, ma io sono assente dal 95% del testo, così come è assente il tempo presente. Sono libri diversi.

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Nel caso dei libri di viaggio lei dunque «dialoga» soprattutto con i luoghi e le persone, nel caso di quelli storici con le fonti, i materiali raccolti negli archivi e nelle biblioteche…
È così. Quando scrivi libri di viaggio hai la grande libertà di raccontare le cose che hai visto. I libri storici sono molto più vincolanti. È come se scrivessi con una mano dietro alla schiena. Avendo a disposizione soltanto ciò che le fonti dicono di un particolare periodo: per dare vita a una narrazione storica che si regga sulle proprie gambe, provo a narrare una storia in modo simile a un romanzo. E cerco di concentrarmi su un periodo circoscritto, sui momenti di transizione.
Nel caso de Nella terra dei Moghul bianchi racconto un’unica storia d’amore, che dura dal 1797 al 1800. L’assedio di Delhi copre un arco di tempo che va dal 1856 al 1858. Ne Il ritorno di un re non faccio che riferire una storia che va dal 1849 al 1952. Ho impiegato tre anni per raccogliere i materiali e un anno per scrivere il libro, in modo tale da illuminare quel periodo così breve nella maniera più dettagliata possibile.

Per «L’assedio di Delhi» – la storia della rivolta dei soldati indiani dell’esercito dell’India britannica contro i propri superiori – lei ha fatto ricorso a fonti indiane inedite, i «mutiny papers». Ne «Il ritorno di un re» attinge a una grande quantità di fonti afghane, mai considerate dalla letteratura storiografica occidentale. Quanto sono importanti le fonti «locali»?
L’idea che si debbano raccontare entrambi i lati di una storia, specie se conflittuale, non è particolarmente innovativa, ma è stata poco praticata. Quando si scrive sulla seconda guerra mondiale, sembra ovvio fare riferimento alle fonti naziste, giapponesi, russe, etc. La storia imperialistica è, invece, ancora largamente scritta dal punto di vista dei colonizzatori. Succede perché le fonti coloniali sono facilmente accessibili nelle capitali europee, e perché le fonti in dari, urdu o nelle altre lingue «locali» richiedono competenze linguistiche che spesso non si hanno. Perfino nei post-colonial studies si finisce per attingere, anche se in chiave critica, soltanto alle fonti imperialistiche.

Nelle note finali de «Il ritorno di un re» scrive che le fonti afghane, oltre a rivelare molte cose che le storie europee ignorano, «costituiscono uno specchio nel quale possiamo ‘vederci come gli altri ci vedono’». Che immagine avevano gli afghani degli inglesi, allora?
La maggior parte delle fonti ci restituisce un’immagine dei britannici come occupanti brutali. Gli afghani li vedevano attraverso lo stesso stereotipo che gli inglesi applicavano loro, quando dicevano che l’«afghano» è feroce, bigotto, traditore, disonesto, forte militarmente ma debole moralmente. Alexander Burnes, membro della missione britannica a Kabul, per gli inglesi era uno 007 alla James Bond, un romantico seduttore e un abile stratega, per gli afghani invece era un diavolo, provvisto di corna e coda lunga!

A proposito di percezioni: molti afghani ritengono di essere ancora oggi pedine su una scacchiera internazionale. È una percezione legittima?
In Afghanistan, come in Medio Oriente, circolano molte teorie cospiratorie inverosimili. Gli afghani, come gli iraniani, tendono per esempio a sovrastimare l’intelligenza e la lungimiranza degli inglesi. Qualcuno arriva a credere che abbiamo stipulato accordi segreti con il mullah Omar. Anche sulle ragioni dell’attacco degli Stati Uniti in Afghanistan, nel 2001, circolano teorie cospiratorie. Non le condivido. Ritengo che Bush volesse in qualche modo dimostrare la virilità americana, subito dopo l’11 settembre. E che a ciò si sia sommata tutta una carica retorica, un bel bagaglio di pretesti, essenziale per l’autopercezione occidentale: la liberazione delle donne, la democrazia, i diritti umani.

«Il ritorno di un re» narra la storia dell’alleanza stipulata tra il leader afghano Shah Shuja, «esiliato» in India, e la Compagnia delle Indie orientali, con l’obiettivo di deporre il re afghano Dost Mohammad e sostituirlo con Shah Shuja…
Dal punto di vista britannico, la storia comincia quando Henry Rawilson, un giovane funzionario dell’intelligence inglese, incontra per caso nelle terre di confine tra Persia e Afghanistan Ivan Vitkevic, un ufficiale dell’intelligence russa che viaggiava con i cosacchi. A Londra, questo fatto viene male interpretato. Gli inglesi ne deducono che Dost Mohammad Khan, al potere dal 1826, stia per allearsi con i russi. Temono che l’Afghanistan finisca per diventare un protettorato della Russia. Non era così. Alexander Burnes, dalla missione inglese di Kabul, scrive lettere su lettere spiegando che non c’è alcuna alleanza all’orizzonte. Non viene ascoltato. Al contrario, si pianifica l’invasione. Per legittimarla, c’è però bisogno di una faccia afghana. È quella di Shah Shuja, nipote del grande Ahmad Shad Durrani, il primo imperatore afghano.

Shah Shuja, che da anni cercava di tornare sul trono, una volta a Kabul si accorge presto che il sostegno degli inglesi è strumentale. E che la sua sovranità è molto limitata…
Shah Shuja viveva da trent’anni fuori dal paese. Di colpo, viene messo a capo di un esercito, quello della Compagnia delle Indie orientali, una vera e propria multinazionale, simile alle attuali Hulliburton, Exon, Google. Nel 1939, l’Afghanistan viene invaso. Shah Shuja reinsediato. Gli inglesi troppo frettolosamente ritengono che la guerra sia finita. Lui si rende conto – come avrebbe fatto Hamid Karzai nel 2001 – che non comanda veramente, perché gli inglesi – gli americani nel caso di Karzai – assumono le decisioni operative più importanti senza informarlo.

Ma quali sono i passaggi che da questa alleanza, per quanto strumentale, condussero alla prima guerra anglo-afghana?
Nei primi mesi non si registrò alcuna forma di resistenza. Il paese era stabile. Ma l’opposizione si formò rapidamente. L’errore – ripetuto nel 2001 – fu dare per scontato il sostegno degli afghani. Così, nel 1840 gli inglesi presero Hong Kong nella Guerra dell’oppio, togliendo risorse importanti all’Afghanistan. Allo stesso tempo, la Compagnia delle Indie si rese conto di non avere risorse sufficienti per tenere fede alle promesse fatte alle tribù delle frontiere, nella regione che oggi chiamiamo Fata (l’area delle Agenzie pakistane amministrate in modo federale, ndr). Per tenere aperto e sicuro il passaggio dall’Afghanistan all’India britannica, le tribù dei Ghilzai, degli Afridi, etc, si aspettavano una ricompensa. Ma quei soldi non arrivarono mai.

La scintilla che fece insorgere definitivamente gli afghani contro gli inglesi aveva però a che fare con una storia d’amore «illecita»…
In effetti Alexander Burnes, in seguito fondamentale nelle operazioni inglesi, sedusse la fidanzata di uno degli uomini di Shah Shuja, provocando la reazione degli afghani, che minacciarono di tagliare la testa a Burnes. La rivolta cominciò così: in modo spontaneo. Accadde tutto in pochi mesi. Fino alla famosa, tragica ritirata degli inglesi, nel 1842. Il 6 gennaio del 1842, 18mila e 500 uomini (700 soldati europei, 3.800 sepoy indiani e 14mila membri dello staff civile) partirono da Kabul. Alla guarnigione britannica di Jalalabad, verso l’attuale confine con il Pakistan, il 12 giugno arrivò soltanto un uomo. Tutti gli altri erano stati catturati o uccisi dalla resistenza afghana.