«Non saremo complici di questo crimine». Questa la dichiarazione, firmata da 1.128 accademici di tutto il mondo, che è costata l’arresto a 18 professori turchi. Chiedevano lo stop della brutale campagna militare contro il Kurdistan turco che ha ucciso oltre 160 civili.

Alla chiamata di Erdogan (che aveva duramente attaccato la petizione turca e internazionale contro l’operazione militare) la macchina della repressione di Stato ha risposto subito: la procura di Istanbul ha aperto un fascicolo contro oltre 130 accademici per violazione dell’articolo 301 del codice penale e ieri sono arrivati i primi arresti.

Una retata senza precedenti. Dietro le sbarre sono finiti 18 professori universitari (15 della Kocaeli University e 3 della Uludag), altri potrebbero seguirli presto, dopo perquisizioni in case e uffici: la polizia – dicono le autorità – è alla ricerca di «prove che li colleghino al terrorismo». Nelle stesse ore la Duzce University anticipava la magistratura e cacciava un suo professore per aver firmato la petizione. Ieri in serata, secondo l’agenzia turca Anadolu, 15 degli arrestati sono stati rilasciati dopo gli interrogatori.

Le accuse sono “insulto alle istituzioni statali” e “propaganda terroristica” a favore del Pkk, contro il quale da fine luglio è stata scatenata l’operazione militare turca. Rischiano da uno a 5 anni di galera. Lo stesso Erdogan lo ha ripetuto ieri, dal palcoscenico di piazza Sultanahmet, dove ha visitato il luogo dell’attentato – ricondotto all’Isis, seppur manchi la rivendicazione – in cui martedì sono morti 10 turisti: «Solo perché hanno il titolo di professore o dottore non significa che siano illuminati. Sono vili perché sono a fianco dei vili».

A reagire è uno dei più noti firmatari della petizione, il professore e filosofo statunitense Noam Chomsky, sul sito kurdo Anf English: «Spero che la vostra coraggiosa presa di posizione otterrà il sostegno popolare e internazionale che merita. Sfortunatamente Erdogan sta di nuovo utilizzando alcune delle più dure e brutali politiche contro i diritti kurdi». Chomsky aveva risposto, giovedì, direttamente al presidente turco in una lettera inviata al The Guardian, reazione all’invito di Erdogan a visitare la Turchia e a vedere con i propri occhi l’attuale situazione: «Se deciderò di venire in Turchia non sarà su suo invito, ma come in passato su quello di molti coraggiosi dissidenti, tra cui i kurdi sotto attacco da troppi anni».

Dissidenti coraggiosi ma sempre meno numerosi: la strategia della tensione architettata dal governo dell’Akp ha funzionato. La gente, quella che scese in piazza a Gezi Park e a Taksim Square nel 2013, ha paura. Ha paura perché la repressione messa in piedi due anni fa è riuscita a soffocare le voci critiche e i movimenti: nessun risultato archiviato, ma 22 morti, oltre 8mila feriti, quasi 5mila arresti. Ha paura perché tutti sono nel mirino: attivisti e combattenti come professori e giornalisti.

Amnesty International ieri ha pubblicato subito un comunicato contro gli arresti, ma il resto del mondo si gira dall’altra parte: la Nato coccola Ankara perché strumento di confronto con la Russia e base di partenza dei jet della coalizione che attaccano lo Stato Islamico in Siria e Iraq; l’Unione Europea ne ha bisogno per frenare l’arrivo di rifugiati in fuga da una guerra, quella siriana e irachena, che è globale. A poco servono quindi le dichiarazioni di facciata degli alleati, come quella degli Stati uniti che ieri esprimevano preoccupazione per l’arresto degli accademici tramite l’ambasciata in Turchia.

Specchio di tale filosofia – impunità in cambio di appoggio militare – sono i tre miliardi di dollari che Bruxelles ha promesso ad Ankara perché impedisca ai profughi di proseguire il viaggio verso la fortezza Europa, un aiuto consistente per un paese con un deficit di bilancio di oltre 7 miliardi di dollari.

Ieri il segretario agli Esteri britannico, Philip Hammond, mentre condannava le azioni militari del Pkk senza pronunciarsi su quelle turche contro i civili, chiedeva ad Ankara di fare di più per frenare i rifugiati diretti in territorio europeo. Erdogan risponde, sull’attenti: il governo fornirà permessi di lavoro di sei mesi a parte dei rifugiati siriani (circa 2,2 milioni) e iracheni (300mila) già presenti in Turchia e a chi arriverà, dopo averli tenuti ai margini per anni.

L’obiettivo è dare loro un’alternativa a lavoro nero e a elemosina per le strade. Oggi i rifugiati godono dello ‘status di protezione’ che garantisce accesso alla sanità e ad alcuni servizi, ma non al mercato del lavoro. Soltanto 3.800 hanno ottenuto il permesso di lavoro, una goccia nel mare. Molti altri lavorano senza contratto, accettando stipendi molto più bassi del minimo, non oltre i 200-300 dollari al mese, accedendo tensioni con la popolazione turca.