Internet ha costituito una «rottura epistemologica» nella sequenza dei saperi. Meglio sarebbe stato celebrarne la ricorrenza trentennale senza cariche della polizia. La natura del cambiamento esigerebbe rispetto: un immenso surplus di comunicazione misto al mutamento dell’identità soggettiva.

Questa volta è direttamente il cervello ad essere implicato. Vale a dire: tende a cambiare la stessa percezione di sé, costruendosi una inedita persona digitale. Lasciamo ai dotti, ai medici e ai sapienti la valutazione su effetti, conseguenze ed accidenti. Ma è probabile, per sdrammatizzare subito il tutto, che già qualcosa di simile sia avvenuto ai tempi della rivoluzione dei caratteri a stampa gutenberghiani, o con la monumentale «scoperta» del cinema. Qui, però, la rivoluzione è proprio «rivoluzionaria» e, tra un lustro o magari meno, il panorama intero della conoscenza sarà irriconoscibile usando lenti e criteri analogici.

C’è un dibattito non banale tra coloro che ritengono il computer la rinascita dello stesso spirito socializzante dell’oralità dopo la terribile parentesi della massificante televisione generalista; e chi invece chiarisce che software e algoritmo rappresentano il capitalismo all’ennesima potenza. Il Capitale cognitivo. Comunque, si tratta di una dialettica fertile se serve ad innalzare la soglia analitica del pensiero dell’innovazione. Non siamo, infatti, di fronte a uno scoppiettante campo giochi. Internet è la realtà, più di quanto sia quella che la vecchia testa considera tale. Per parafrasare Wim Wenders, l’analogico è più naturale, il digitale è più realistico. È la realtà «aumentata». Qui dentro si collocano i temi della formazione e del digital divide, che riguardano l’arretratezza tecnologica italiana (i ritardi della banda larga-ultralarga, al di là dei proclami) e a maggior ragione l’esiguità dell’alfabetizzazione.

Sotto la guida di Stefano Rodotà è stata redatta dalla Camera dei deputati la «Carta dei diritti in Internet», approvata con una mozione parlamentare, portata lo scorso novembre in Brasile all’annuale sessione dell’Internet governance forum (Igf) dalla Presidente Laura Boldrini. Ottimo risultato di un impegno pluriennale, che premia la lungimiranza di chi, come Stefano Trumpy (che fu a fianco del «pioniere» Antonio Blasco Bonito, a Pisa), Laura Abba e una forte avanguardia, nonché una manciata di «politici», si è occupato della democratica governance della rete. A Tunisi, nel 2005, nacque l’Igf come organismo specifico, aperto e non governativo. Fu l’esito di un antico dibattito, che risale alla Conferenza tenutasi nel 1997 sulla televisione presso le Nazioni Unite e a momenti successivi, come il network informale degli esecutivi di 22 paesi nato nel 1998 ad Ottawa su impulso dei governi canadese ed italiano. Che fare per Internet, ci si chiedeva. Prevalse l’idea di puntare sull’autoregolamentazione, attraverso un Forum dedicato, espresso dalla Nazioni Unite. Di qui, l’Internet governance forum.

A trent’anni della nascita in Italia – per l’inesauribile capacità rabdomantica di geniacci italiani, inascoltati, come il comitato nazionale delle ricerche (Cnr) di Pisa- della prima stagione della rete, è irrinunciabile un salto definitiva nella modernità «seconda». Chi controlla gli algoritmi e la biblioteca della conoscenza? Chi limita lo strapotere degli aggregatori di contenuti come Google, Facebook, Amazon e confratelli? Il governo italiano – con l’Europa – dia un segno di esistenza in vita. Senza slide, con i fatti. E senza manganelli.