Può succedere a un organismo collettivo ciò che accade agli individui. Quando i conflitti con il mondo esterno diventano troppo pericolosi e complessi, vengono interiorizzati. Confinati in questi perimetri più maneggiabili, sembrano più gestibili. Si gioca lo stesso gioco senza correrne i rischi.

Così è successo quasi sempre ai partiti di sinistra e ai movimenti sociali. Il conflitto contro le élite diventa un conflitto tra componenti interne, e/o tra soggetti politici e di movimento della stessa area. Ogni parte proietta sull’altra l’ombra del potere, la accusa di connivenza con l’avversario, di essere funzionale ai suoi interessi o di assomigliargli. La base di questi meccanismi è soprattutto una percezione d’impotenza.

Negli ultimi mesi, pur in una situazione di forza molto maggiore rispetto a quella di altre sinistre europee, questo meccanismo ha iniziato a rendersi visibile anche in Podemos.

Il momentaneo (parziale) fallimento della strategia dell’“assalto al cielo” (la vittoria elettorale) ha portato a una concentrazione sul mondo interno, che dovrebbe chiudersi con il congresso di febbraio. Non è un caso che – come testimoniano i documenti congressuali presentati in questi giorni da Iglesias ed Errejon – le divisioni strategiche più forti siano iniziate dopo l’ingresso in Parlamento. Quella data rappresenta allo stesso tempo il momentaneo allontanamento della meta originaria (la vittoria), e un successo. Comunque sia ha rappresentato un avvicinamento al potere che «seduce e terrorizza».

I dispositivi retorici e strategici che Podemos ha usato contro gli avversari sono stati da quel momento applicati alle dispute interne. Vediamo come.

Se finora il punto di forza della retorica podemita era stata la contrapposizione gente comune/élite, le due principali componenti interne (quella di Iglesias e quella di Errejon) la applicano adesso al proprio partito. Una parte può quindi accusare l’altra di essere quella più gradita o funzionale alle élite, che vengono simbolicamente trasferite dentro al partito.

Il popolo a cui si parla è ora il popolo interno, la base degli iscritti, di fronte a cui si cerca di accreditarsi come la parte più lontana dai gruppi dominanti, più legata allo spirito originario del partito, meno verticistica e più favorevole al rilancio dei circoli e alla redistribuzione interna del potere. Una sorta di «appello populista» rivolto all’interno: il ritorno del maoista sparate sul quartier generale.

Se i social media e la tv erano stati gli strumenti privilegiati per raggiungere trasversalmente l’opinione pubblica, ora diventano armi della battaglia interna. Elementi specifici di Podemos, come l’efficacia e la creatività nella produzione di contenuti massmediali, la ricerca dell’identificazione con il pubblico, l’abilità nella ricerca del trending topic, la capacità di mobilitare esteticamente emozioni e immaginari evocativi, sono usati per vincere elezioni interne.

L’idea di una politica fatta da persone comuni, in cui militanti e «gente» fossero sostanzialmente coincidenti, è stato uno dei punti di forza di Podemos, ma può condurre a una sovrapposizione tra la comunicazione rivolta ai militanti e quella rivolta all’elettorato. La liquidità dei confini tra organizzazione interna e mondo esterno può retroagire negativamente sul partito, come avviene nelle Twitter wars interne in cui i dirigenti si confrontano duramente: la comunicazione interna può essere esposta al pubblico per attaccare altri dirigenti e affermare una parte contro l’altra, anche cercando alleanze con i grandi media.

Un altro punto. Podemos ha accusato le élite spagnole di parlare in nome del tutto (la patria, la gente), per fare gli interessi di piccoli gruppi. Ora le due principali aree del partito si presentano come garanti della totalità del progetto-Podemos, e riversano sull’altra parte l’immagine di chi parla in nome del tutto per fare interessi di parte (magari per cercare posizioni di potere). Anche la frattura nuova/vecchia politica viene interiorizzata: si cerca di affermarsi come gli unici esponenti del nuovo, mentre i progetti dell’altra parte sono accostati a un ritorno del vecchio.

Importante anche il dibattito sul rapporto con la cultura di massa. Questa è un’altra cifra originaria di Podemos: incunearsi nel senso comune senza lo snobismo della sinistra tradizionale. Ora le due parti si lanciano accuse di elitismo: o per il fatto di rappresentare una sorta di “mondo degli hipster”, slegato dalla realtà popolare (velata accusa di Iglesias agli errejonisti); o per sostenere che la cultura popolare e operaia seduce solo chi non fa parte dei ceti popolari, mentre il popolo pensa su basi differenti, più identitarie e simboliche che materiali (Errejon contro le nuove posizioni di Iglesias).

L’uso interno di categorie e strategie nate per la «sfida al mondo» è una costante storica, e in parte è fisiologico e inevitabile. La sinistra italiana, negli ultimi dieci anni, è diventata la specialista mondiale di questo gioco. I dirigenti di Podemos conoscono bene la storia politica e culturale della sinistra italiana. Bisogna sperare – e se qualcuno può farlo è il gruppo dirigente di Podemos, grazie alla sua preparazione – che non ripetano i suoi errori. Sarebbe importante non solo per la Spagna.