Annunciato ad agosto dal singolo Bang Bang e a quattro anni dall’ultimo ¡Tre! che chiudeva una trilogia deludente sia per le vendite che per la critica, i Green Day tornano con il dodicesimo album in studio, Revolution Radio (Reprise Records). Come un buon pittore analizza scientificamente i colori o la natura che desidera inserire nel suo quadro, i Green Day hanno approcciato il nuovo album studiando il loro passato e le loro tematiche, producendo un disco molto radiofonico che in definitiva rappresenta una summa della trentennale storia della band.

 
Senza avvisare mamma Warner, si sono chiusi in studio sei giorni alla settimana e hanno lavorato con un ritrovato equilibro anche perché – notizia – Billie Joe Armstrong non beve più, è uscito dal giro, si gode i due figli adolescenti (musicisti a loro volta), i quattro cani e ha imparato ad annoiarsi come un comune mortale, e ce lo ricorda sin dalla prima traccia Somewhere Now. Con i fedeli di sempre,il bassista Mike Dirnt e il batterista Tré Coo, Armstrong (capello nero luccicante e Converse ai piedi) conferma la tendenza punk-pop che si stabilizza sulle coordinate dei primi Green Day e che lui stesso ha definito «un movimento che vuole riunire tutte le anime perdute per ballare insieme, per cantare insieme e, soprattutto, per trovarsi gli uni con gli altri». Un’associazione antitetica, quasi hippie, come potrebbe sembrare punk e pop.

 
Dell’energica Bang Bang il leader ha commentato: «È una delle migliori canzoni punk che io abbia mai scritto», e le 7 milioni di visualizzazioni su YouTube in poco meno di due mesi devono averglielo confermato. Grandi numeri per un album bilanciato, che esprime il suo massimo potenziale nella traccia Forever Now, sette minuti che dischiudono il manifesto dei Green Day, come pensiero e come attitudine, e inseriti nelle classiche cromature punk-rock: pochi accordi e veloci riff, rullante e cori.
Già nella Rock’n’Roll Hall of Fame e nel novero delle band con più album venduti al mondo (il terzo, Dookie, si attesta sulle 10milioni di copie) e diversi dischi di platino, la band rappresentante la working class di Berkeley non si è mai tirata indietro dall’impegno sociale e politico (per esempio contro la guerra in Iraq), tanto che Troubled Times, tempi difficili, è una finestra sulla mancanza di pace e sulla storia che si ripete, e non c’è da meravigliarsene viste le dichiarazioni preoccupate di Armstrong riguardo l’ascesa di un personaggio come Trump.

 
Poi nel disco c’è anche l’uso delle armi, il razzismo, internet e tutto quell’immaginario sul mondo occidentale di cui si cerca una codifica. In Outlaws i tre ricordano quando erano «The dawn of a criminal in bloom» con la malinconia (che accompagna un po’ tutto l’album) di chi è cosciente che la personale parabola della vita ha preso il verso giusto. Il disco si chiude con la melodica Ordinary World (voce e chitarra acustica), scritta per il film che uscirà a metà ottobre negli Usa e che vede come protagonista Armstrong nella sua prima prova di attore.

 
Un Tenue arrivederci  dei nuovi Green Day, maturi ma non invecchiati, con la solita spensierata allegria velata di una buona dose di coscienza.
In Italia si partirà da gennaio con l’arrivo del musical American Idiot ispirato all’omonimo album del 2004 e per la regia di Marco Iacomelli, mentre i Green Day hanno confermato quattro date a Torino, Firenze, Bologna e Milano dove, potete scommetterci, ci saranno più di un genitore con prole a seguire gli stessi beniamini.