A un mese dal lancio della campagna «Verità per Giulio Regeni» che Amnesty international Italia ideò in collaborazione con La Repubblica (e alla quale hanno aderito centinaia di associazioni, sindacati, enti locali e media, compreso il manifesto), ieri sulla prima pagina del quotidiano diretto da Mario Calabresi è apparsa una sua intervista al presidente egiziano Abd al-Fattah Al Sisi, che parla per la prima volta della morte del giovane ricercatore friulano e promette «la verità» sull’omicidio del giovane. Un’intervista considerata segno di «evidenti e significativi passi avanti» dal premier italiano Matteo Renzi, che il generale golpista definisce «un vero amico mio e dell’Egitto», aggiungendo: «Abbiamo un ottimo rapporto e lui è persona di principi che non dimentica gli impegni e i legami che abbiamo».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, cosa pensa di questa intervista?
Non fa fare un solo passo avanti nella riceva della verità e manca la questione chiave: il contesto nel quale si colloca la vicenda terribile di Giulio, che è quello della violazione sistematica dei diritti umani. Non c’è una risposta a questo perché non c’è una domanda.

Quale operazione politica sottende l’intervista?
Non ne ho idea, non ho una teoria particolarmente sospettosa. L’iniziativa giornalistica era dare la parola al presidente di un Paese di cui stiamo parlando da più di due mesi per mettere nero su bianco una sua presa di posizione. La cosa interessante è che il presidente prospetta scenari inquietanti rispetto al rischio che senza di lui l’Egitto diventerebbe terra di arruolamento per lo Stato islamico, o senza di lui ci sarebbero tantissime partenze dall’Egitto verso l’Italia. Insomma, coglie l’occasione per ricordare a Roma il suo ruolo. È da questi contenuti dell’intervista e dall’entusiasmo con cui è stata accolta, che sorge la preoccupazione.

L’incontro di lunedì scorso al Cairo tra la procura di Roma e la massima autorità giudiziaria egiziana era già stato considerato un segno di svolta. Ci si può aspettare davvero dal regime di Al Sisi un’effettiva apertura nella ricerca della verità?
Io non credo che possiamo essere eccessivamente ottimisti. Anche se mi sembra che complessivamente, mettendo insieme una serie di eventi di queste settimane, è possibile che si possa aprire una fase due. In campo c’è la serietà dell’impegno della magistratura italiana e la pressione della nostra campagna, che è diventata popolare, con la richiesta di verità per Giulio Regeni. E poi – evento un po’ sottovalutato da noi – c’è la risoluzione del Parlamento europeo che crea imbarazzo, perché ha avuto un riverbero pubblico enorme. Al momento però non ci stiamo avvicinando alla verità, forse solo qualcosa potrebbe muoversi a livello di rapporti tra autorità giudiziarie. È chiaro che in questa intervista Al Sisi ha ribadito di essere in una posizione di forza, ed è altrettanto chiaro che con questo endorsement di Renzi nei suoi confronti entra nel gioco anche l’Italia.

Perché sono parole «molto importanti», come le ha definite Renzi, quelle usate da Al Sisi che ha di fatto rivendicato un ruolo centrale nella tenuta dei rapporti economici tra i due Paesi, compreso lo sfruttamento da parte dell’Eni «del più grande giacimento di gas del Mediterraneo», nella lotta al terrorismo e nella guerra in Libia?
È un’apertura di credito eccessivamente precoce e ottimista da parte di un primo ministro che ebbe parole di elogio quando Al Sisi salì al potere con un colpo di Stato. Del resto nel 2014, come ha verificato minuziosamente l’Osservatorio sulle armi leggere di Giorgio Beretta, secondo i registri Onu sugli armamenti, l’Italia ha dato migliaia di pistole e fucili d’assalto alle forze di sicurezza egiziane. È come se ci fosse fretta di recuperare un giudizio positivo, come si preferisse fare presto piuttosto che fare bene.

Urge recuperare un’immagine presentabile e spendibile dell’alleato egiziano?
E non ci sarebbe nulla di male se però non ci andasse di mezzo la ricerca della verità. E invece a questo punto non vorrei che la prossima versione che arriverà dal Cairo venisse acclarata dal potere esecutivo italiano solo perché è giunto il momento della versione “buona”.

Per Renzi il fatto che il generale Al Sisi si rivolga direttamente alla famiglia Regeni «come padre prima che come presidente» sarebbe un segno positivo. Senza voler anticipare in alcun modo l’inchiesta della magistratura, ma è mai possibile che il presidente egiziano possa eventualmente riconoscere che a torturare e uccidere Regeni sia stata la sua stessa polizia, o pezzi di apparato del regime?
La verità è d’obbligo, e credo anche possibile. Se però riusciamo a non farci prendere dagli entusiasmi per questa «apertura», se riusciamo ad ottenere la collaborazione della magistratura egiziana – che vuol dire del governo – se manteniamo la consapevolezza che l’Egitto oggi è un Paese in cui la violazione dei diritti umani è fatta sistema, se si fa capire ad Al Sisi che è osservato dall’Italia e dall’Europa. Solo così è possibile che a fronte di centinaia di egiziani torturati e uccisi impunemente, il regime del Cairo possa prendere provvedimenti sul caso di un cittadino italiano. E sarebbe già un risultato. Se poi di conseguenza crolla il bastione dell’impunità e si cominciano a celebrare processi, le cose potrebbero cambiare e se ne potrebbe trarre un vantaggio per tutte le vittime. Ma questo, come dicevo, appunto da oggi non dipende più solo da Al Sisi.

Il quale ha messo sullo stesso piano la scomparsa cinque mesi fa a Roma di un cittadino egiziano, Adel Moawad Heikal. Perché questo caso, sul quale la polizia italiana non ha ancora saputo fornire spiegazioni, equivarrebbe a quello di Giulio Regeni?
Purtroppo, malgrado la procura di Roma stia indagando, non si hanno ancora notizie del signor Heikal, ed è un dovere continuare a indagare fino in fondo. Però mi pare che il caso, tirato fuori proprio ora, sia usato un po’ strumentalmente. Dubito comunque che verrà ritrovato sul raccordo anulare con terribili segni di tortura.