Deve essere difficile separarsi dal protagonista dei propri romanzi, soprattutto quando si è deciso di rinnovargli la fiducia, titolo dopo titolo, ogni volta vedendo premiata la propria fedeltà. E, tuttavia, anche l’approdo a una certa insofferenza nei confronti di una voce che si confonde con la propria, quando non la sovrasta decisamente, sembra ineluttabile.

Così prima o poi si sogna di tacitare con un gesto autoriale quella figura alla quale ci si è accompagnati per centinaia di pagine e decine di anni, e c’è chi ci riesce e chi no. Philip Roth ha cinicamente fatto uscire di scena il fantasma di Zuckerman dopo quasi trent’anni di remunerativi servizi, ma lottava con lui da molto tempo, e prima ancora di farne il protagonista delle sue storie lo aveva eletto a proprio alter ego privilegiato, un ruolo che prima o poi chiunque paga.

Anche Richard Ford aveva pensato di espellere Frank Bascombe dalle sue storie, dopo averlo ritratto trentenne in Sportswriter, quarantenne in Il giorno dell’indipendenza e cinquantenne in Lo stato delle cose. E forse non è del tutto un caso se proprio durante la sua lunga separazione da Bascombe, lo scrittore americano ha lavorato al suo libro contenutisticamente più straziante e stilisticamente più maturo, Canada, il racconto, in prima persona e a cinquant’anni di distanza dai fatti, di un quindicenne lasciato allo sbando, insieme alla sorella, dopo che i genitori sono finiti in galera per avere, del tutto incredibilmente, rapinato una banca. Lo stesso anno in cui uscì il romanzo, Richard Ford decise di verificare con i suoi occhi le rovine che l’uragano Sandy aveva lasciato in eredità alle spiagge del New Jersey: era il 2012 e la voce di Frank Bascombe tornò, dopo quasi un decennio di silenzio, a imporsi alla trascrizione letteraria che lo scrittore americano intendeva restituire del disastro.

Ne uscì un altro dei suoi libri migliori, il cui titolo originale suona come un calembour malriuscito, Let me be Frank with you, e che Feltrinelli ha pubblicato riprendendo il titolo di una delle quattro novelle che lo compongono, Tutto potrebbe andare molto peggio (traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 215, euro 17,00). Ormai Bascombe è un uomo in pensione, ha lasciato il suo lavoro di agente immobiliare, è tornato a Haddam, il sobborgo del New Jersey nel quale aveva già abitato, è sposato in seconde nozze con Sally, anche lei sul finire dei sessant’anni, ha tre figli di cui il primo morto per malattia, di certo il più presente alla sua mente.

Conoscevamo gia Bascombe come l’emblema dell’uomo medio americano di buoni sentimenti, e tale si conferma: legge per i ciechi e una volta alla settimana va al Liberty di Newark con un gruppo di veterani a accogliere i reduci dall’Afghanistan o dall’Iraq, sorriso sulle labbra e mano tesa, ma sufficientemente vigile da riflettere sull’esibizionismo intrinseco a queste performances. Ora, per di più, il suo corpo quasi vecchio lo rende diffidente: ha cominciato a spazzolarsi la lingua tre volte al giorno per scongiurare l’alito cattivo, avanza congetture desolate sulle conseguenze della vecchiaia e, ricordando le raccomandazioni alla prudenza di sua moglie, si descrive come «un incidente ambulante in attesa di verificarsi».

Nel primo racconto di cui si compone questo libro in quattro movimenti, Frank viene raggiunto al telefono da un vecchio conoscente, Arnie Urquhart, al quale molti anni prima aveva venduto per una somma esorbitante la sua imponente villa tutta vetri e sequoia, ora spazzata via dall’uragano. Davanti alle fondamenta di quella casa divelta, Arnie Urquhart non rivendica nulla, ha solo bisogno di condividere la sua sciagura, vuole un testimone, e comprensibilmente sceglie l’uomo che un tempo abitava lì, l’ex agente immobiliare dal quale ora vorrebbe anche sapere come comportarsi con la società di speculatori che si è fatta avanti per comprare il terreno dal quale l’uragano ha sradicato la sua casa.

Il ritratto di Arnie, affidato a poche righe, disegna un’altra variante magistrale dell’americano medio al quale Richard Ford deve la sua fortuna di romanziere: Arnie è un solido ex ragazzo del Maine, che gestisce una pescheria specializzata in frutti di mare, destinati a una ricca clientela del New Jersey. Si presenta personalmente al volante del suo furgone con le maniche arrotolate sulle braccia carnose, pronto a sbattersi a destra e a manca per organizzare ogni sorta di servizio a caro prezzo, impuzzolentendosi le mani di pesce mentre allestisce tartine perfette, e con la sua industriosità ricorda implicitamente ai clienti prezzolati l’etica del lavoro del New England. Ora Arnie gesticola sulla spiaggia affollata dalle rovine, dove enormi buche rivelano le radici della case divelte, e tra queste la sua: «dappertutto è come se un gigante fosse uscito dal mare grigio e avesse preso a calci frenetici ogni cosa».

Bascombe sente di essere diventato un bersaglio di quella sensazione di perdita, e di quella tristezza che la desolazione del paesaggio gli procurano e da cui avrebbe voluto salvaguardarsi. Ma se c’è una costante nel suo comportamento, durante le quattro le novelle di cui è protagonista, questa riguarda il suo super-Io, che prevale sul desiderio di quiete che accompagna la sua incipiente vecchiaia. Così, nel racconto titolato «I New Normal», la sua missione consiste nel portare alla ex moglie Ann, ricoverata in una sorta di casa di cura di extralusso, uno speciale cuscino ortopedico raccomandato per i malati di Parkinson. I due ex coniugi stentano a trovare qualcosa da dirsi, tanto più che Ann ora si interessa di misticismo, e nel cercare le cause della sua malattia scarta le ipotesi genetiche e accusa piuttosto l’uragano, «un agente di mutamento al di sopra della realtá». Quando è sul punto di andarsene, Bascombe cede ancora una volta al suo dover essere: «non sento l’impulso di toccarla, baciarla, abbracciarla. Ma lo faccio egualmente. È la nostra ultima scaramanzia. L’amore non è una cosa, dopo tutto, ma una serie infinita di singoli atti».

La vecchiaia ha reso Bascombe ancora più accondiscendente, comprensivo, disponibile, qualità che ora si prepara a strappare al tempo che passa. Quando una donna afroamericana si presenta a casa sua, qualificandosi come la vecchia inquilina Charlotte Pines, desiderosa di rivisitare le stanze della sua infanzia, Frank la lascia fare, anzi la incoraggia, fino al punto di ritrovarsi, suo malgrado, a ascoltare la storia di lei, una storia che non promette nulla di buono. Viene fuori, infatti, che in quella casa il padre della signora Pines ammazzò sua madre, poi suo fratello, dunque si sedette a aspettare che tornasse da scuola per uccidere anche lei, ma Charlotte tardò, perció il padre trascinò in cantina i cadaveri e poi si fece fuori.

Forse perché sconvolta dall’uragano, che l’ha sorpresa nella sua casa, ora distrutta, Charlotte Pines è venuta a mettere in scena il proprio dramma davanti all’attuale abitante di quelle stanze in cui la sua infanzia era stata bruscamente interrotta. E Bascombe ascolta. Non si sottrae nemmeno di fronte all’appello lasciato sulla sua segreteria telefonica da un vecchissimo conoscente ora in punto di morte, la cui voce aveva gia ascoltato alla radio, fra quelle degli scampati all’uragano, desiderosi di raccontare la sciagura che li ha colpiti. Di fronte all’uomo che offre di sé uno spettacolo miserevole, ancora una volta Bascombe si presta all’ascolto, nonostante da tempo abbia rinunciato alle amicizie e a tutto quanto gli appare superfluo: in fondo ha sessantotto anni, dice di dividere il suo tempo tra l’attesa della moglie, che assiste le vittime dell’uragano, e l’attesa della morte; ma Ford gli ha regalato una nuova stagione, di certo una delle migliori.