«E l’infame sorrise». È Franti, il cattivo di «Cuore». Tra le figure della scuola lacrimosa, pia e bigotta del De Amicis a Umberto Eco piaceva Franti. Ha scritto un «Elogio di Franti». Perché? Perché rideva. Eco sapeva ridere, Eco rideva. Se volessimo usare il suo fondamentale «Trattato di semiotica generale», e dare una «interpretazione» del «segno» di Eco, eccola: il riso. Nel «Nome della rosa» – ricorderete – Guglielmo di Baskerville indaga su una catena di delitti consumati in abbazia. I delitti servono a nascondere un documento su un indicibile segreto: Cristo aveva riso. Atto sovversivo, apocalittico, cioè rivelatore. Primo insegnamento da mandare a mente: si è seri solo se si è capaci di ridere, anche di noi stessi.

Ho avuto il piacere e l’onore di incontrarlo più volte. È impressionante quel che sapeva, i collegamenti e i nessi che era in grado di intrecciare. Un aggettivo per la sua cultura? Sterminata. Secondo insegnamento: studiate. Senza studiare la politica non può essere né buona né nuova. Si rafforza per esempio in me l’impressione che noi non sappiamo quasi nulla della ipertrofica macchina economica mondiale che governa gli umani. Esoterica, come la storia del «Pendolo di Foucault». Eco si è letteralmente tuffato nel Medioevo. La sua non è stata una ricerca erudita su tempi lontani. Ha fatto scoccare piuttosto la scintilla tra Medioevo ed Evo moderno, nei labirinti di simboli, enigmi, mostruosità, occultismi. Gioco di ombre e di luci.

«Secoli bui» sono stati chiamati quelli antichi. Ma non c’è tanto buio anche nel Moderno? Forse che l’assolutismo del capitale finanziario non sta spingendo la società umana verso un medioevo a più alto livello tecnologico? Non c’è tribalismo, razzismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, fanatismo, pensiero magico, banalità e piacere dello strazio dei corpi che non trovi facile cittadinanza nel mondo globalizzato? Sapete che cosa mi meraviglia, mi sorprende, e mi convince, delle parole lette ed ascoltate da Eco? Il considerare la storia del mondo, almeno dalla scrittura in poi (e non dimenticate che tutto è cominciato in quelle terre che oggi chiamiamo Siria e Iraq), come contemporanea. Si può parlare con il vicino di casa come con Guglielmo di Occam. Lo cito perché è uno degli autori più amati da Eco, ed è noto per il famoso «rasoio».

Una teoria razionalista che qualcuno pone tra i fondamenti della scienza moderna. Dice in sostanza il «rasoio»: non bisogna formulare più ipotesi di quelle necessarie, non bisogna dire più del necessario. Il resto, si direbbe con la moderna teoria dell’informazione, è «rumore», che confonde e maschera l’informazione. Parlo con Guglielmo, e mi chiedo assai spesso quanto devo «tagliare» – faccio un esempio a caso – del diluvio di parole del Presidente del consiglio in carica in Italia per capire esattamente che cosa vuole dire e fare.

Ecco ancora Umberto Eco: Occam e Mike Buongiorno, il basso e l’alto, le profondità della grande cultura e la fenomenologia della vita quotidiana. Egli è stato tra i grandi studiosi della società di massa, e della comunicazione nella società di massa. Il suo «Apocalittici ed Integrati» è un pilastro. Da cui trarrei per farla breve la terza raccomandazione: se si vuol fare una sinistra che si rispetti non bisogna essere apocalittici. Ma non si può nemmeno essere integrati. E nella comunicazione, se il mezzo non è esattamente il messaggio, tuttavia lo influenza. Sono noti gli scritti di Eco sull’ambivalenza del Web. Ha detto: se un cretino va al bar e spara fesserie, gli astanti lo sfottono. Se va su Facebook, trova legioni di seguaci. Come il leone e la gazzella, intelligenza e stupidità ogni mattina si alzano e si mettono a correre.

Sulla rete circolano entrambe. Ma la stupidità parte con un vantaggio: la velocità. La verità è che l’intelligenza ha bisogno del dubbio, dell’approfondimento, del ripensamento: dell’esitazione. E c’è un Eco politico, impegnato e battagliero. Egli è stato fieramente antiberlusconiano, fino a rifiutare la collaborazione con l’oligopolio editoriale di «Mondazzoli», e aderire al progetto della neonata «nave di Teseo», per la quale – ahimé! – non ha avuto il tempo di scrivere nulla. E voglio dire che, nonostante tante chiacchiere, se nel ventennio di Benito non si poteva dirsi democratici senza essere antifascisti, nel ventennio di Silvio non ci si è potuti chiamare democratici senza essere antiberlusconiani. Sperando naturalmente anche che la serie dei ventenni sia esaurita.

E voglio ricordarlo anche in una particolare occasione: Castello di Gargonza, 1997, governo Prodi da poco costituito. Mi capitò di essere tra i relatori. A favore della coalizione di centrosinistra chiamata «Ulivo». Trovai Eco tra i più convinti sostenitori. Prevalsero i tagliatori d’alberi. Resta il ricordo di ore indimenticabili passate con lui. E il rammarico per una delle molte occasioni gettate al vento. Vediamo di non buttarle tutte al vento. Dipende dalla sinistra che saremo. Una sinistra di alternativa e di governo. Ricordando che, e per l’alternativa e per il governo – traggo quest’ultima raccomandazione dalla vita e dall’opera di Umberto Eco- una cosa è indispensabile: sapere.