C’è una fila di camion bianchi sulla via principale del piccolo paese di Avetrana, la troupe raccoglie le ultime cose. Le riprese sono finite, è ora di rientrare. Incontro Guido Chiesa al Bar Blue Angels «è in centro, tutti lo conoscono» mi aveva detto al telefono proprio come una persona del posto. Seduti al tavolo, prendiamo qualcosa per rinfrescarci dal caldo. Due chiacchiere per rompere il ghiaccio ed intanto ci chiediamo se l’allegria dei ragazzi di rientro dal mare e la voce un po’ alta di qualche mamma che richiama i figlioletti intenti a giocare nella piazzetta adiacente, ci consentiranno di conversare. Ci proviamo.

Leggendo la sinossi sembra che Belli di papà sia un film cross-generazionale, una commedia che porta a riflettere sulla società contemporanea e su un modello di famiglia tutto italiano. Perché ha scelto di fare questo film?

In realtà Belli di papà è ispirato a un film messicano, Nosotros Los Nobles. Quindi stiamo parlando di un modello di famiglia che si può ritrovare in qualsiasi parte del mondo. L’accusa ai figli di essere viziati e scansafatiche non è una prerogativa solo italiana! Quando ho sentito parlare di questa storia in Colorado ero un po’ scettico perché pensavo fosse un film “contro” i figli. Non avrei mai accettato di lavorare su un progetto che punta il dito acriticamente contro i figli. Quando poi ho ricevuto la prima stesura della sceneggiatura e ho visto il film a cui è ispirata, ho pensato invece che potesse essere una bella occasione perché esprime esattamente il concetto opposto. Se i tre giovani protagonisti del film sono diventati così, la responsabilità, diretta e indiretta, è anche dei loro genitori. La loro madre è morta quando erano piccoli e il padre è assente, egoista, narcisista. Nel corso della vicenda i tre se ne rendono conto e trovano la forza di confrontarsi con lui. Per loro è un percorso di maturazione, ma anche per il genitore. Sento questi temi molto vicini: come padre sono consapevole dei miei errori e, pur continuando a farli, ho smesso di credere che ho ragione solo perché sono adulto. E’ purtroppo normale che un genitore sbagli: l’importante è rispettare i propri figli e imparare a chiedere scusa. Alla fine sono stato felicissimo della proposta della Colorado: è raro vedersi offrire una commedia così interessante e tematicamente problematica, con un pezzo da novanta della comicità quale Diego Abatantuono. Il film me lo vedo con toni più vicini a titoli come Little Miss Sunshine o Come ti spaccio la famiglia piuttosto che alla commedia classica all’italiana. Lo hai definito un film cross-generazionale: bene, è un film che vuol fare andare al cinema insieme genitori e figli, adulti e giovani.

Nel film oltre a Diego Abatantuono ci sono Matilde Gioli, Francesco Facchinetti, Antonio Catania ma anche attori e comparse locali. Ci racconta dei personaggi e del processo di casting?

Quando ho cominciato a lavorare sulla sceneggiatura con Giovanni Bognetti, nel cast c’erano già Diego Abatantuono, Andrea Pisani e Antonio Catania. Diego Abatantuono interpreta Vincenzo Liuzzi, un grosso industriale, vedovo, che pur di far rimboccare le maniche ai figli finge la bancarotta e li porta a rifugiarsi nella diroccata casa di famiglia a Taranto. I tre figli sono Chiara (Matilde Gioli), che in Puglia trova lavoro come cameriera, il figlio maggiore Matteo (appunto Pisani) che si mette a sgomberare rifiuti e il più piccolo, Andrea (Francesco Di Raimondo), che si improvvisa venditore porta a porta di prodotti cosmetici. Gli altri interpreti sono Loris (Francesco Facchinetti), un arrampicatore sociale fidanzato con Chiara, Giovanni (Antonio Catania), socio di Vincenzo e tantissimi attori locali, tra cui Marco Zingaro, Nick Nocella, Uccio De Santis, Umberto Sardella, Giorgio Consoli, Gustavo Caputo, Celeste Casciaro e i Nirkiop, celebri Youtubers di Taranto. Tra i tanti impegnati in piccoli ruoli, c’è anche il gestore di una stazione di servizio di Avetrana (Donato Livieri): dapprima non lo volevo, ma lui ha insistito così tanto che gli ho fatto provare degli sketch con Diego. E’ stato bravissimo e da comparsa è stato promosso ad attore!

Avete scelto di girare in Puglia, prevalentemente ad Avetrana. Quali sono gli aspetti di questi luoghi che l’hanno particolarmente colpita da un punto di vista puramente cinematografico?

La sceneggiatura prevedeva che la famiglia si trasferisse da Milano in Puglia. Io ho suggerito di ambientare la casa nella Città Vecchia di Taranto, ma di girare il resto del film in un’indistinta provincia tarantina. La scelta è caduta su Avetrana dove abbiamo effettuato la maggior parte delle riprese. Avetrana è veramente una terra interessante, cinematograficamente parlando: non ha gli aspetti folkloristici tipici del meridione, è un luogo non facilmente identificabile. Non è un Sud da cartolina, insomma, non è stereotipato, ha un’iconografia peculiare e, se vogliamo, poco italiana. Sembra quasi di essere in Texas.

Oltre che dal “visivo” è stato colpito anche dai “suoni” della Puglia?

Sì, dagli accenti e dai dialetti, veramente vari e particolari. Poi ci sono i rumori della Città Vecchia, dove le persone si parlano da una finestra all’altra e si sentono i dialoghi all’interno delle case come se tu fossi lì con loro. E ancora i suoni delle campagne, delle cicale, del vento.

Com’è andata sul set? Avete incontrato particolari difficoltà produttive?

No, a livello produttivo nessuna difficoltà, è andato tutto liscio. Gli avetranesi che abbiamo incontrato sono delle persone gentili e di una disponibilità rara. Poi sono stati molto discreti anche nei confronti degli attori e in particolare di Diego. Un’accoglienza splendida, io girerei tutti i film qui. Questa atmosfera si è riflessa anche sul set, che è stato spensierato, nonostante il caldo e la fatica. Credo sia il mio film più leggero, anche grazie al “clima” umano che respiravamo.

Dunque la rivedremo girare in questi luoghi?

Non dipende da me, ma ne sarei felicissimo. Mi piacerebbe venire a girare in Puglia d’inverno: penso che questi luoghi siano ancora più interessanti durante i mesi poco frequentati dai turisti. Mi piace girare in esterno, in spazi aperti, con molta luce naturale, dove puoi muovere la macchina da presa senza problemi. Da questo punta di vista la Puglia è perfetta: ovunque inquadri trovi qualcosa di interessante.

In una recente intervista, Maurizio Totti, produttore della Colorado con il quale collabora anche in questo film, parla del pregiudizio di una parte della critica italiana nei confronti dei film che hanno successo al botteghino. Segue chi scrive di cinema? In che stato versa secondo lei la critica cinematografica oggi?

Non sono certo il primo a dire che la critica versi in uno stato non proprio brillante. E non è problema solo italiano. Da un lato, nell’epoca di internet, la critica si è polverizzata, ci sono troppe testate e troppi siti, le recensioni sulla carta stampata hanno perso importanza e le riviste sono quasi scomparse; dall’altro c’è un problema a monte, vale a dire: a che cosa serve la critica? Nel passato, nel bene o nel male, la critica svolgeva una funzione sociale perché aveva come paradigma collettivo una certa visione del mondo (l’idealismo, il marxismo, lo strutturalismo, ecc.). Lo stesso valeva per i film. Oggi questo quadro condiviso non esiste più: quando si legge una recensione si viene informati del gusto di un singolo recensore, c’è poco o nulla alle spalle. E quindi interessa poco, e soprattutto pochi. Una parte della critica cinematografica si è così chiusa su se stessa, slegandosi dal mondo. È un sistema isolato, per soli addetti ai lavori, “esperti”, iniziati. Un sistema in cui domina la cinefilia, che presta poca attenzione al contesto culturale, sociale e produttivo in cui i film nascono. Questa ghettizzazione è assai pericolosa. Sono stato molto colpito dalla frase che Margherita Buy pronuncia nell’ultimo film di Nanni Moretti, Mia madre: «Che cosa ne sarà di tutti questi libri?». La realtà non è solo i libri, i film, la musica. La realtà è prima di tutto gli esseri umani che la vivono, la creano, la modificano. Noi abbiamo separato i libri dagli esseri umani, i film dagli esseri umani, la musica dagli esseri umani. Non ci occupiamo più della realtà, ma solo della sua rappresentazione, come se questa fosse la realtà tout court e non una parte della realtà stessa. Non è vero che tutto è virtuale, tutto spettacolo, tutta finzione: la carne, il sangue, i corpi esistono! Diceva Orson Welles, citando una frase di Shakespeare, come consiglio da dare ai giovani cineasti: «Porgi uno specchio alla natura». Io lo suggerisco ai critici: prendete i film e guardateli nel loro contesto, non solo all’interno di quel ghetto che è la cultura cinematografica. Quello che dice Maurizio Totti è vero: una parte importante della critica cinematografica ha smesso di guardare alle persone, alla realtà. Alcuni critici si porgono lo specchio l’uno l’altro e vedono se stessi attraverso i film. Non riflettono più il mondo, ma se stessi. Il ruolo del critico dovrebbe essere quello di portare le persone verso i film, aiutare a leggerli, svelare lo specchio. Non specchiarcisi dentro. La stessa cosa che diceva Welles ai cineasti e per me vale e varrà sempre.

Si è aperto da tempo un dibattito sull’importanza della Film Literacy. La cultura cinematografica può essere promossa e diffusa anche attraverso un processo di alfabetizzazione all’audiovisivo che miri a formare gli spettatori di oggi e di domani. Che ruolo hanno in tal senso i tecnici, gli studiosi di cinema e le istituzioni?

Insegno regia in una scuola che si chiama Griffith a Roma. Ogni anno la prima cosa che racconto ai miei studenti è un aneddoto che mi vede protagonista. Nel 1995 sono stato invitato all’Istituto Lumière a Lione insieme a una ventina di registi, allora giovani, provenienti da vari paesi della Comunità Europea. Ci hanno fatto vedere il primo pezzo di pellicola mai impressionato, L’uscita dalle fabbriche Lumière dei fratelli Lumière, e ci hanno chiesto: «Dietro quest’inquadratura unica che riprende gli operai che escono dalla fabbrica, c’è un’idea di regia?». Su venti di noi, in diciotto hanno risposto «no». C’era anche Bertrand Tavernier, il direttore dell’Istituto, e ne è scaturito un dibattito. Bene, alla fine anche i diciotto hanno detto «si». Perché abbiamo capito che, tra tutti i punti di vista che avevano a disposizione, i Lumière scelsero di filmare i loro operai da quello che meglio soddisfaceva i loro interessi di proprietari della fabbrica, ovvero quello che ritraeva gli operai mentre uscivano belli, contenti e sorridenti; qualunque altra inquadratura non avrebbe trasmesso lo stesso senso. Questa è la regia: produrre un senso! Questo è il cinema. Non è solo estetica, autori, generi, tanto meno solo cinefilia. Cos’è che spinge un regista a scegliere un’inquadratura piuttosto che un’altra? Il senso che vuole trasmettere. Che cosa lascia un film ai suoi spettatori? Un senso, che non è il “messaggio”, ma l’emozione profonda: un film fa ridere o piangere o spaventare o riflettere, e via discorrendo. Alla gente interessano le emozioni che il senso produce. Questo andrebbe insegnato: a leggere questo senso. Trovo molto grave che nelle scuole non ci siano forme di insegnamento del linguaggio audiovisivo, che oltre ad essere stimolante ed arricchente, aiuterebbe a sviluppare lo spirito critico, nonché a comprendere come attraverso le immagini e i suoni, le scelte estetiche e narrative, questo senso viene costruito.