Che la pretesa di modificare la forma dello Stato italiano, in senso presidenzialista, sia un tentativo improvvido e sbagliato dei partiti per uscire dalle proprie difficoltà, è stato già sottolineato da autorevoli costituzionalisti: da Rodotà a Zagrebelsky a Gaetano Azzariti (il manifesto 4 giugno). Oltre che da alcuni giornalisti della stampa democratica. E la sferza critica vale soprattutto nei confronti del Pd, erede di una tradizione che ha fatto della difesa della Costituzione una bandiera e la propria bussola politica.

Come si è arrivati a questo punto? Perché i partiti e soprattutto un partito di centro-sinistra, crede di trovare una soluzione alla propria incapacità di governo nella torsione autoritaria, restringendo lo spazio istituzionale del potere di comando?

Credo che occorra una rapida riconsiderazione storica per afferrare le radici profonde di un simile percorso fallimentare. Ed è sufficiente volgere lo sguardo al nostro passato prossimo, per scorgere la grande corrente di pensiero, la potente mitologia che ha cambiato la natura dei partiti politici e svuotato dall’interno quelli, comunisti e socialdemocratici, che rappresentavano gli interessi operai e popolari. Una travolgente idea-forza ha spazzato lo spirito del tempo per tutto il trentennio neoliberista, mettendo in un angolo secoli di cultura politica.

La buona novella evangelica era che il mercato, costituendo il più efficiente allocatore delle risorse, fosse anche il più virtuoso e imparziale regolatore dei rapporti sociali. La politica è stata la grande accusata, in quanto portatrice di interessi particolari, frantumati, affaristici, clientelari. Per decenni abbiamo vissuto sotto il dominio incontrastato di questo indiscutibile aristotelismo del tempo presente: occorreva che la politica si limitasse a elaborare le regole della competizione, che operasse a favore della competizione, lasciando libere le forze sociali di esprimere la propria capacità d’iniziativa, le loro energie imprenditoriali. In breve tempo ciò che era individuale, privato, economico è venuto a incarnare il progresso, il motore dello sviluppo, il territorio senza confini della libertà. E parallelamente tutto ciò che era politico, pubblico, collettivo odorava odiosamente di parassitismo, inerzia, soffocamento delle libertà individuali.

Tutte le condizioni storiche degli ultimi 30 anni, nei paesi di antica industrializzazione, hanno fortunosamente favorito il successo di questo nuovo senso comune universale: dalla crisi fiscale del welfare state al crollo dell’ Urss, che mostrava, come in un esperimento , l’impossibilità della politica, degli apparati statuali, di surrogare la geniale spontaneità della mano invisibile. E in Italia, a onor del vero, le ragioni di discredito della politica erano forse più accentuate e visibili che altrove. Ricordiamo la lunga stagione, negli anni ’80, della critica alla partitocrazia? Il blocco del sistema politico italiano, il potere di ricatto di un partito, il Psi di Craxi, l’occupazione da parte delle forze di governo di tutti gli spazi delle istituzioni e della società – secondo la denuncia di Enrico Berlinguer, riemersa di recente – hanno creato le condizioni ideali per una svalutazione radicale della politica come rappresentanza delle forze sociali dentro lo Stato, come forma di governo di un paese moderno. Ai partiti, quali centri di potere parassitario, inconcludenti , veniva contrapposta l’impresa capitalistica, un agente dotato di una propria intrinseca eticità, in quanto generatore di ricchezza, ottenuta tramite sfide competitive e capacità di innovazione. E’ questo il grande mare mitologico in cui è sguazzato per decenni il populismo berlusconiano.

Ma qual è stato l’esito di tale ondata di emarginazione e discredito della politica? Domanda che richiederebbe un ampio saggio di ricostruzione storica. Si può tuttavia almeno ricordare un aspetto decisivo per caratterizzare la situazione attuale. L’ affidare alla libera competizione delle forze in campo tutto lo spazio da esse richiesto ha avuto un risultato di indiscutibile evidenza: il soccombere del più debole, l’emarginazione delle forze di lavoro a livello mondiale. L’astrattezza da manuale di economia della libera competizione che premia i migliori ha avuto una smentita già in ambito economico. Si è visto che le imprese, anche quelle che puntano sull’innovazione di prodotto, le più avanzate e moderne, competono sul costo e sulle prestazioni intensive della forza-lavoro. Basti per tutti l’esempio della Foxconn a Shenzhen, dove le grandi multinazionali tecnologiche, dalla Apple a Nokia, l’avanguardia lucente del capitalismo mondiale, fanno profitti sfruttando sino all’esaurimento la manodopera semischiavile cinese. Senza andare lontano, in Italia come in tanta parte dell’Occidente i prezzi relativamente contenuti dei generi alimentari si reggono sul lavoro servile degli immigrati. Mentre il dilagare del lavoro precario ha cambiato i connotati della civiltà industriale.

La consegna al libero mercato del potere di comando nella vita sociale ha progressivamente svuotato le basi popolari dei vecchi partiti comunisti e socialisti. Essi si sono trovati così a mediare tra diverse forze sociali e tra queste e lo stato, cercando di cambiar pelle, di trovare nuove configurazioni per giustificare la propria esistenza. Perché, va detto con fermezza, l’esaltazione del mercato come regolatore dominante della vita sociale, fomentata dai partiti, toglie ad essi non solo rilevanza, ma svuota le ragioni storiche della loro esistenza. Qual è il fine di queste istituzioni, se esse non sono in grado di redistribuire la ricchezza che l’asimmetria di potere, la divisione tra capitale e lavoro, produce incessantemente in forme squilibrate? Perciò anche il Pds, Ds, Pd si è trasformato progressivamente in un “partito pigliatutto”, per utilizzare l’efficace formula del politologo tedesco Otto Kirchheimer. Una formazione che cerca di pescare consensi in tutti i ceti sociali, avendo tirato via l’ancora che la legava al mondo popolare. Una direzione di marcia sempre più obbligata, dal momento che tale partito, tutti i partiti, rimangono confinati negli spazi nazionali, mentre il libero mercato – che nel frattempo, con scelte suicide, si è lasciato scatenare – quello delle merci e quello della finanza, si muove nel mare globale. Partiti e stati impotenti e mercati sovrani. La storia capovolta dei nostri anni.

Se guardiamo a questo quadro generale, sia pure sommariamente abbozzato, noi riusciamo a comprendere le ragioni non superficiali delle attuali difficoltà del Pd. Intanto il disancoraggio dalla classe operaia e dai ceti popolari, comporta una perdita gigantesca di conoscenza, il deperimento di quel sapere sociale che serve a illuminare e a indirizzare l’azione politica. Il ricorso ai sondaggi è un misero surrogato pubblicitario. Mentre è assente qualunque analisi delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo e dunque delle prospettive del lavoro, pur sempre il cuore della società. I partiti italiani dei primi tre decenni del dopoguerra, non solo il Pci, ma anche la Dc, erano degli intellettuali collettivi, per dirla con Gramsci. Oggi questa figura viene incarnata dall’impresa multinazionale, che studia strategie di penetrazione del mercato, elabora prodotti e bisogni, anticipa tendenze culturali su scala mondiale. Mentre i partiti hanno abbandonato il compito di analizzare la società e navigano a vista in una spessa cortina di nebbia. Perciò i loro dibattiti interni sono così dominati dalle opinioni, da un pluralismo di lega superficiale, oltre che da ragioni di lotta personale. Il Pd che ha rinunciato a rappresentare la classe operaia, i ceti popolari, ampi strati di ceto medio e quella diffusa intellettualità italiana storicamente schierata a sinistra, ha rinunciato anche alla propria coesione interna, alla propria omogeneità e coerenza di corpo politico. Perciò sbanda, è un aggregato volatile, esposto a tutte le brezze. Ma restando nel presente limbo manca di riempire quello spazio politico che le è storicamente proprio: quello della sinistra popolare, capace di stare sul territorio, di rappresentare interessi e conflitti relativamente omogenei, oltre che di promulgare leggi di governo. Una latitanza, questa si, che paralizza e rende zoppo l’intero sistema democratico. Che cosa c’entra la Costituzione?

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