I dirigenti della Federcalcio palestinese hanno rinviato di 48 ore, a domani sera, la partita di ritorno della finale della Coppa di Palestina in programma ieri allo stadio di Hebron. Negoziati febbrili vanno avanti da due giorni per permettere a tutti i calciatori dello Shebab di Khan Yunis, un club di Gaza, di raggiungere Hebron. Nessuno è in grado di fare previsioni sulle decisioni delle autorità israeliane che, tornando alla linea mantenuta fino ad un anno fa, a prima dell’accordo raggiunto con i palestinesi nella sede della Fifa a Zurigo, questa settimana hanno negato, per presunte “ragioni di sicurezza”, il passaggio al valico di Erez di nove dei 19 tesserati del Khan Yunis. La squadra di Gaza perciò è rimasta con 10 calciatori e non può scendere in campo per tentare di ribaltare il risultato dell’andata che ha visto prevalere l’Ahly di Hebron per 1 a 0. Il titolo in palio è importante. Chi riuscirà ad aggiudicarselo parteciperà ai Giochi d’Asia e ad altre competizioni regionali. A decidere l’esito della Coppa di Palestina perciò potrebbe essere Israele che, dopo l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme, lo scorso ottobre, ha introdotto nuove restrizioni ai movimenti dei palestinesi più giovani, calciatori inclusi, rimangiandosi le garanzie che aveva offerto alla Federcalcio palestinese.

Mercoledì ragazzi dello Shabab Khan Younis hanno raggiunto assieme ai dirigenti del loro club il valico di Erez, tra Gaza e Israele. Dentro avevano un forte desiderio di rivincita. La squadra dell’Ahly Hebron – protagonista da un paio d’anni di un vero e proprio miracolo sportivo, grazie anche all’intervento tecnico di un allenatore italiano, Stefano Cusin – qualche ora prima li aveva umiliati, battendoli proprio sul terreno amico di Gaza e ipotecando in parte la vittoria della Coppa di Palestina. Una volta giunti al posto di blocco israeliano hanno appreso di dover attendere la conclusione dei controlli di sicurezza. Una attesa durata 12 ore e che è terminata con la comunicazione che nove tesserati dello Shebab non avrebbero ottenuto l’autorizzazione per entrare in territorio israeliano e raggiungere la Cisgiordania. Lo scatto del presidente della Federcalcio palestinese, Jibril Rajoub, è stato immediato. «Questo comportamento di Israele è inaccettabile» ha protestato «I giocatori stati costretti ad aspettare tutte quelle ore (al terminal di Erez) e a subire interrogatori e controlli che non hanno alcuna relazione con la sicurezza. Gli israeliani hanno fatto domande (ai calciatori) sui loro vicini di casa e riguardo altre situazoni di Gaza che non hanno alcun legame con la sicurezza. Non so se esista al mondo un altro posto dove si trattano le squadre di calcio in questo modo». I servizi israeliani da parte loro hanno fatto sapere che il permesso di transito per alcuni dei calciatori dello Shebab Khan Yunis avrebbe rappresentato un rischio per la sicurezza del Paese, senza però offrire altre spiegazioni. È molto probabile che gli esclusi siano stati rimandati a casa solo perchè sono noti all’intelligence israeliana come simpatizzanti di Hamas o di altri partiti palestinesi considerati radicali o “terroristi”.

Comunque finisca, la vicenda conferma agli occhi dei palestinesi quanto sia stata fallimentare la decisione presa un anno da fa Jibril Rajoub di rinunciare al voto dell’assemblea della Fifa sulla sospensione di Israele e di accettare un compromesso. Rajoub prima dell’intesa aveva messo in piedi quella che molti chiamarono “l’Intifada del pallone”, la “madre” di tutte le battaglie per i diritti dei calciatori e degli sportivi palestinesi colpiti dall’occupazione militare. Un’offensiva accompagnata in alcuni giorni da centinaia di manifestanti riuniti davanti alla sede della Fifa che mostravano i cartellini rossi dell’espulsione nel gioco del calcio, per sollecitare la sospensione di Israele. Poi, si disse, pressioni internazionali indussero Rajoub ad accettare un accordo con Israele che prevedeva la creazione di un comitato congiunto sui movimenti dei calciatori palestinesi e delle loro squadre, inclusa la nazionale, e la questione delle cinque squadre di coloni ebrei, quindi basate nei Territori palestinesi occupati, che partecipano ai campionati israeliani. Rajoub presentò il risultato ottenuto come un successo. «Ho deciso di ritirare la sospensione (di Israele) ma questo non significa che ho ceduto sulla resistenza», disse negando pressioni internazionali sulla sua mossa. «Se le cose non cambieranno», avvertì, «i palestinesi torneranno a presentare la loro richiesta».

I festeggiamenti in Israele però diedero l’esatto significato di quel compromesso. I media locali riferirono che il governo Netanyahu nei giorni precedenti all’assemblea della Fifa aveva svolto un intenso lavoro diplomatico per convincere le altre federazioni ad opporsi alla proposta palestinese. L’Intifada del pallone perciò si trasformò nell’Intifada del pallone sgonfiato. Il ritorno a casa fu molto amaro per Jibril Rajoub. A Gerico, durante una conferenza stampa, provò a spiegare il compromesso raggiunto con Israele ma fu contestato per giorni dagli sportivi palestinesi e da un po’ tutti i partiti politici che avrebbero preferito una sconfitta alle votazioni della Fifa piuttosto di una rinuncia che giudicavano umiliante. Un anno dopo per il calcio palestinese non è cambiato nulla, era e resta prigioniero dell’occupazione.