La presa di coscienza dell’inevitabilità della candidatura di Trump è arrivata come una bomba su Twitter, la piazza social per eccellenza di questa campagna Usa. Tra i primi Reince Preibius, presidente della commissione nazionale del partito repubblicano, che subito dopo la sconfitta di Cruz dal suo account ha twittato «Trump sarà il nominato Gop, tutti noi dobbiamo unirci e concentrarci nel battere Hillary».

Le risposte non si fanno attendere a partire dal braccio destro di Romney, Garrett Jackson, che gli ha replicato con «Mi spiace ma non accadrà, metto prima la patria e poi il candidato, non supporterò un falso e pericoloso». A Jackson ha fatto eco il giornalista del Weekly Standard, Stephen Hayes che ha risposto a Preibius con un laconico «Sotto nessuna circostanza». Con loro anche l’ex portavoce di Jeb Bush, Tim Miller: «Mai, mai, mai Trump – ha dichiarato via Twitter – Più semplice di così». Ancora più drastico e sconsolato il senatore Lindsey Graham: «Se nomineremo Trump saremo distrutti. E ce lo meriteremo». La sensazione che la nomina di Trump sia la fine del partito repubblicano si è tramutata in consapevolezza nel giro di poche ore; Trump non è un politico, il suo metodo, la sua retorica sono tremendamente invisi al partito che fino alla tornata elettorale dell’Indiana ha cercato il più possibile di spingere Ted Cruz, anche lui non molto amato ma quanto meno uno dei loro.

Ora i repubblicani si ritrovano a dover abbandonare anche la seppur non rosea opzione di una convention contestata in quanto non essendoci nessun altro candidato in corsa l’unico votabile è Trump. «Rip contested convention» twittava Karen Tumulty del Washington Post e la presa di coscienza di questo spauracchio che per mesi a destra hanno sperato non si conretizzasse, ha portato lo scrittore Lachlan Markay a pubblicare la foto della propria scheda di iscrizione al partito repubblicano mentre brucia. Non molto diverso, solo un filo meno teatrale, Philip Klein del Washington Examiner che ha twittato la foto della propria cancellazione dalle liste dei votanti repubblicani, mentre sempre più base, nota o meno, continuava a twittare usando l’ashtag #ripgop.

La morte del vecchio partito è arrivata sulla prima pagina del New York Daily News uscito con in apertura il disegno di una bara contenente un elefante (simbolo dei repubblicani) a stelle e strisce, con un commento scritto con i toni dell’elogio funebre: «miei cari siamo qui riuniti oggi per piangere il Gop, che una volta era un gran partito, ucciso da un’epidemia di Trump». Non solo sgomento, insoddisfazione e rifiuto, ma anche vere e proprie defezioni. Il blogger repubblicano Ben Howe che era stato anche uno dei consiglieri di MacCain, sempe tramite Twitter ha annunciato il proprio cambio: «Il Gop sta candidando un tizio che legge il National Enquirer (pessimo tabloid) e pensa sia una pubblicazione di livello». E conclude con: «I’m with her», ossia «Io sto con lei», uno degli slogan della campagna di Clinton. Il senatore del Nebraska, Ben Sasse, usa un altro tra gli hashtag più rappresentativi di queste ore che è #WeCanDoBetter, possiamo far di meglio, dove si riconoscono tutti quelli che non voteranno mai per Trump ma nemmeno Clinton. «La maggior parte degli americni pensa che i candidati, sia repubblicano che democratico, siano dei disonesti- ha twittato Sasse – E il popolo ha ragione».

Più di tutti gli altri Ben Shapiro riassume il pensiero comune: lui si è licenziato da Breibart quando si sono rifiutati di dare supporto alla giornalista strattonata dallo staff di Trump, durante un suo comizio, e su Twitter ha dichiarato: «Tutti noi abbiamo delle linee di demarcazione oltre le quali non possiamo andare. Donald Trump è ben al di là di questa linea».