La drammaturgia contemporanea trova una nuova casa, sì perché Einaudi ha deciso di ripubblicare ad anni di distanza alcuni tra i volumi più interessanti della Ubulibri, fondata da Franco Quadri, che di tale drammaturgia è stata, a partire dagli anni ‘70, testimone e, spesso, anticipatrice. La casa editrice – che fece conoscere all’Italia i massimi drammaturghi stranieri e lanciò molti di quelli italiani tra cui Fassbinder, Strauss, Koltès, Copi, Müller, Havel, Schwab, García, Brusati, Scaldati -inaugurò, nel 1982, la collana grigia di testi teatrali con il teatro di Thomas Bernhard, portato in scena fino ad allora principalmente da Claus Peymann. E proprio da Bernhard riparte Einaudi pubblicando due volumi che raccolgono sei delle sue opere teatrali insieme al primo volume di Eptamologia di Hieronymus Bosch di Rafael Spregelburd, drammaturgo cronologicamente a noi più vicino.
Del resto poteva Quadri, per il quale, almeno secondo il critico Massimo Marino, «la parola diventa la nuova frontiera della ricerca», non partire da Thomas Bernhard, dalla sua parola che è spregiudicatezza e scandalo? La parola insistita è tutto ciò che resta ai suoi personaggi congelati in un luogo senza tempo che si avviano al congelamento fisico ed emozionale (non a caso Gelo è il titolo di uno dei suoi romanzi più celebri). Personaggi spesso con deformazioni fisiche che ne impediscono il movimento come in Una festa per Boris popolato di invalidi o il protagonista del Riformatore del mondo cui è stata amputata una gamba. Rapporti di sopraffazione e sospetto dominano questi due testi – nel primo tra La Buona e Johanna e nel secondo tra il riformatore e La donna- come molti altri dell’autore austriaco. Un genere di relazione ben sintetizzato dalle parole della Buona: «Una persona in realtà è una persona che odia un’altra persona», unico rapporto possibile tra esseri umani. Il linguaggio si attorciglia ripetendo continuamente medesimi concetti con poche variazioni e diventa qui strumento di dominio sull’altro in mondo chiuso, malato, privo di speranza, come sottolineato da Eugenio Bernardi nel saggio che introduce il secondo volume. L’umanità tutta è affetta da una malattia mortale la cui unica risoluzione è la morte: «Se c’è qualcosa/ è la morte/udiamo una voce/ è la morte/chiediamo chi è/è la morte» recita Lo scrittore nella Brigata dei cacciatori.
Agli scrittori, agli artisti, agli intellettuali che popolano i suoi testi l’autore affida il compito di opporre resistenza alla mediocrità imperante, essi sono dei pazzi, dei maniaci ma forse vedono ciò che altri non riescono a vedere. Così vengono attaccati: la protagonista di Alla meta, La madre, dipinge il teatro come «sporcizia» poiché schiaffa in faccia alla gente la sua vera essenza. Il teatro è verità e pertanto inaccettabile. Del resto la parola che più ricorre nei testi del drammaturgo austriaco è rucksichtslosigkeit, intransigenza, implacabilità con cui definire il mondo, senza riguardi per nessuno. Di fatti lo stesso Bernhard fu implacabile seminatore di scandali, noto per offendere, con nomi e cognomi, rappresentanti del mondo della politica e della cultura. Leggere l’imperdibile colloquio con André Muller che accompagna il primo volume dove si affronta il tema del suicidio, dell’indifferenza e della diversità, per farsene un’idea.
Il terzo volume racchiude invece la prima parte dell’ Eptamologia di Rafael Spregelburd ed è curato da Manuela Cherubini, regista che se ne innamorò tanto da tradurlo e portarlo in scena nel nostro paese. Tra i più rappresentati autori degli ultimi anni, da ultimo da Luca Ronconi, Spregelburd scrisse sette opere (qui vengono pubblicate le prime quattro) ispirandosi al quadro La ruota dei sette peccati capitali di Hyeronymus Bosch dipinto perché fosse esibito come un tavolo, in modo che lo spettatore potesse vederne una parte per volta per passare poi a scelta ad un’altra parte. Quest’attitudine interattiva dell’opera viene riprodotta negli scritti del quarantacinquenne autore argentino che crea sette quadri distinti tra loro ma collegati da una serie di rimandi. E soprattutto da una chiara visione per immagini che ben rende il dissolvimento della società moderna.
Se Bosch racconta, attraverso il dipinto, il dissolvimento di un mondo utilizzando un determinato codice, Spregelburd sembra rendersi conto che quel codice per noi è andato perduto e, ciononostante, la forza prorompente dell’opera è rimasta intatta. Egli ci propone dunque un’opera in chiave contemporanea partendo dallo smarrimento di quel codice, rifacendosi in questo a Fassbinder: «Non si riesce a parlare del senso della vita senza utilizzare parole sbagliate, termini inesatti», frase con la quale apre il secondo dei suoi capitoli «biblici», La stravaganza. Qui il drammaturgo affida questo filo rosso alle parole di Maria Ascella – la terza di tre sorelle, di cui una sola, non si sa quale, adottata- che appare in video introducendo un documentario sul Medioevo con queste parole «chi potrebbe fornirci un simile dizionario, un dizionario che spiegasse i simboli del mondo, le tracce che il mondo fornisce su tutte quelle cose che ci sono sconosciute?».
È quello di Spregelburd un linguaggio, pertanto, che procede per frammenti, a tentoni, ricco di rimandi e di segni tra una storia e l’altra ma anche ricco di ironia e ridondante, di cui spesso sfugge il senso (a complicare le cose nella Modestia i personaggi si trasformano in altri personaggi). Se non fosse che il testo stesso è la ricerca di un senso, o meglio, per dirla con l’autore, di un centro a partire da una o da molte periferie che però non riconpongono mai un tutto non facendo altro che rimandarci ad altre periferie.