Björn Larsson, scrittore svedese noto soprattutto per aver raccontato La vera storia del pirata Long John Silver (tr. di Katia De Marco, Iperborea 1998), appassionato velista e narratore del mare in romanzi come Il cerchio celtico, Il porto dei sogni incrociati e molti altri ancora, è ospite quest’anno a Più Libri Più Liberi, la fiera della piccola e media editoria che si svolge al Palazzo dei Congressi di Roma (fino all’8 dicembre). Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo libro, Diario di bordo di uno scrittore (tr. di K. De Marco, Iperborea), attraverso il quale ci permette di entrare nella sua «officina di scrittore», accompagnando il lettore in una visita guidata del suo «cantiere letterario», dai primissimi e appassionati esordi di inquietudine bohémienne a Parigi, alle avventure per mare attraverso i porti di tutta Europa, fino all’ultimo romanzo parodia del genere thriller: I poeti morti non scrivono gialli.
Larsson ci presenta il «punto di vista sulla sua attività di scrittore» in un libro che diventa un vero e proprio «ritratto dell’artista da adulto» e che, se inizialmente era stato concepito come un omaggio per festeggiare i 25 anni del suo editore italiano, a poco a poco è cresciuto diventando una ricerca a ritroso delle rotte che hanno portato lo scrittore in Italia, paese che considera un felice «porto di approdo» e che ha amato fino a impararne perfettamente la lingua.
Ha affermato che l’Italia è per lei un porto di approdo, quindi cominciamo dal mare. In questo suo ultimo libro, ha usato il mare come metafora per descrivere la sua evoluzione spirituale sia come uomo che come scrittore. All’inizio del racconto cita le parole con cui descrisse il suo debutto letterario in Svezia: «La calma ci dà la nausea – scriveva – e desideriamo le tempeste… Tra disperazione e indifferenza, cerchiamo di sollevare uragani dentro di noi»; alla fine di «Diario di bordo», invece, fa sue queste parole del poeta e scrittore svedese Harry Martinson: «Il nostro ideale non dovrebbe essere la bonaccia, che può trasformare il mare in una palude; e nemmeno l’uragano, ma il grande forte aliseo, pieno di impeto e di gioia, salubre e vitale». Sembra la descrizione di quello che gli psicologi direbbero uno sviluppo emotivo perfettamente riuscito. Ci aveva abituati alla letteratura dell’uragano. Com’è questa nuova «letteratura dell’aliseo»?
Il fatto è che quando avevo venti, trent’anni, avevo paura di non riuscire a provare emozioni vere. Forse dipendeva dal fatto che vivevo il mondo come una minaccia, temevo di poter essere ingannato e quindi in qualche modo vivevo in uno stato difensivo. Non a caso, nel mio primo libro è descritto un personaggio che cerca a tutti i costi di provare emozioni, proprio perché è troppo spaventato e non vuole lasciarsi andare. Ma, con gli anni, ho vissuto e capito cose che mi hanno permesso di cambiare. L’idea dell’uragano, della tempesta, emotivamente parlando, non porta nulla di positivo. Quando anni fa ho trovato l’immagine dell’aliseo di Martinson, mi sono detto: ecco la via giusta! Perché, si badi bene, «l’aliseo» non è l’immagine della debolezza, tutt’altro, è forte pur essendo prevedibile. È la «boccata d’aria» di cui abbiamo bisogno nella vita. E anche nella letteratura.
Un’altra immagine che cita spesso in «Diario di bordo», e che ha usato in passato soprattutto nel «Porto dei sogni incrociati» allude al fatto che in mare non si lasciano tracce. È una immagine che ricorda quanto scriveva Joseph Conrad, secondo il quale il mare non ha compassione, non ha fede, non ha legge, ma – soprattutto – non ha memoria. È per questo che il mare è immagine della libertà?
Le parole di Conrad mi fanno pensare all’immagine di me stesso come scrittore. Quando ho cominciato non ero nessuno, e «nessuno» non lascia tracce. Negli ultimi tempi si è diffusa l’idea che la celebrità sia legata all’essere «visti», al lasciare un’immagine fisica di sé, si pensa sia indispensabile per lasciarsi qualcosa alle spalle, ma i frutti di questo modo di fare non restano. Per quanto mi riguarda, mi sono sempre detto che la traccia che posso sperare di lasciare ha a che vedere con la letteratura, non con la mia immagine.
Un tema ricorrente nel suo libro riguarda il fondamentale rapporto che c’è tra realtà e finzione nella letteratura. Lei dice che scrivere un romanzo significa «immaginare il vero», e la letteratura può servire come «strumento per rivelare le potenzialità della realtà». Cosa significa esattamente «immaginare il vero»?
Immaginare il vero significa per me immaginare le cose possibili nel mondo reale. Il possibile di cui parlo è tale per cui se una cosa può succedere anche solo una volta, allora è vera, fa parte della realtà. Quindi, quando dico «immaginare il vero», intendo dire immaginare qualcosa che potrebbe esistere nel mondo reale. Mi è accaduto spesso di aver immaginato nella scrittura qualcosa che poi si è verificato, per caso, forse perché ho avuto le antenne giuste, o più probabilmente perché avevo fatto ricerche preliminari sull’argomento. La cosa fondamentale nell’immaginare il vero per me è il concetto di «possibilità». Immaginiamo di essere in un fantasy, o nella fantascienza e – per dirne una – pensiamo di poter viaggiare più veloci della luce. Sì, d’accordo, lo si può immaginare, però per il momento non è una «possibilità reale».
Ciò che salva la fantascienza e il fantasy, secondo me, è la psicologia dei personaggi, sta qui il loro realismo, non sul piano della tecnologia. Se uno scrittore si facesse interprete di una immaginazione impossibile, se raccontasse qualcosa di assolutamente inattuabile nella vita reale, non riscuoterebbe interesse. Al polo opposto, il rischio che si corre con l’autofiction è perdere la libertà che caratterizza la letteratura.
Nel suo libro racconta anche la passione per le scienze naturali, che ha sempre accompagnato il suo amore per la letteratura. Lei dice che le teorie «scientifiche» sulla natura umana soffrono di un vizio di forma, cioè generalizzano erroneamente alcuni casi particolari, mentre il bello della letteratura è che è in grado di individuare le «crepe sul muro». Nel suo romanzo «Otto personaggi in cerca (con autore)» ha detto di aver cercato di far convivere letteratura e scienza. Secondo lei com’è possibile – se è possibile – elaborare una teoria della natura umana attraverso la letteratura che non si riduca a una frammentaria casistica descrittiva?
La scienza produce conoscenze di tutti i tipi, ma chi la studia è troppo specializzato e così finisce che non esiste una scienza dell’umano. Se lei chiede a un teologo quale sia la cosa più importante nella natura umana, questo risponderà che è la fede, o la religione, se lo chiede a uno psicologo risponderà che è la psiche, se lo chiede a un sociologo risponderà che è la dimensione sociale, ma la verità è che noi siamo tutto questo insieme. Mi sono chiesto: dove è possibile mettere in scena l’umano in tutta la sua molteplicità, la sua diversità? Una volta c’era la filosofia a fare questo lavoro, ma adesso si è ridotta alla teoria del linguaggio, alla logica, è diventata altro. Quindi che cosa ci rimane? Ci rimane la letteratura, dove puoi mettere in scena, in tutta la loro complessità e contraddizione, influenze psicologiche, sociologiche e cosi via nella storia di un essere umano. Ricoeur sosteneva che Shakespeare avesse detto molto di più sull’essere umano che tutta la filosofia occidentale del XX secolo. Ma la forma non deve mimare la saggistica, deve trovare un modo di mostrare, forse anche alla scienza, che la specializzazione non funziona quando si vuole raccontare l’essere umano. Il secondo limite della scienza è che è strutturalmente deterministica. Non c’è mai «niente di nuovo sotto il sole». Io invece ho sempre difeso l’ontologia della libertà, della libera scelta, e questa ce la può mostrare la letteratura, la scienza non lo può fare. Sì, è vero che nella teoria quantistica si parla di «improbabilità» – però improbabilità non significa «libera scelta».
È questa la crepa sul muro. In fondo, la letteratura è l’espressione di una libertà che passa attraverso l’immaginazione. L’immaginazione è il salto di qualità che la scienza non può fare. In matematica 1+1 fa 2, ma nell’amore, quando funziona, 1+1 fa ancora 1. Certo, è niente altro che una metafora, resta il fatto che nella letteratura 1+1 può dare 1.