La ricerca «Vita da professionisti» – dedicata al sindacalista Davide Imola, coordinata da Daniele Di Nunzio per l’associazione Trentin e Filcams-Cgil, realizzata con Emanuele Toscano – è un’istantanea della condizione del lavoro autonomo in Italia. Presentata ieri a Roma nella sede della Cgil, la ricerca descrive la condizione dei nuovi poveri a partita Iva: il 57,8% di un campione di 2210 autonomi guadagna fino a 15 mila euro all’anno; il 13,2% tra i 15 e i 20 mila euro, il restante 28,9% più di 20 mila euro. Tutte cifre lorde.

Redditi che non trovano riscontro nella formazione e nelle competenze accumulate a partire da una laurea, o un diploma, e in costante aggiornamento. Quasi sempre a proprie spese. Questa è la condizione in cui si trovano oggi tutti gli studenti o i laureati e, più in generale, il lavoro qualificato di chi ha tra i 30 e i 45 anni.

Il contrasto tra l’alta concentrazione dei saperi e la realtà quotidiana di un lavoro impoverito e senza tutele, ma perseguitato dalle tasse e dai contributi previdenziali, è caratteristico di un segmento importante del quinto stato: i lavoratori della conoscenza. Gli autori della ricerca , coerentemente con l’impostazione data da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli nel libro Il lavoro autonomo di seconda generazione (1997, Feltrinelli), descrivono tale lavoro nell’ambito del settore terziario in crisi, dei servizi, delle relazioni e della cura, dello spettacolo, delle consulenze per la pubblica amministrazione o per le imprese.

Questo lavoro autonomo svolge le sue attività in una delle 27 professioni regolamentate attraverso ordini o collegi professionali, ma anche nell’ambito del lavoro freelance non ordinistico. Secondo i dati Isfol, i professionisti autonomi e freelance che non sono imprenditori ne hanno dipendenti sono circa 3 milioni e mezzo. Nel loro insieme contribuiscono per oltre il 18% al Pil.

Questo è il primo dato che rovescia il pregiudizio dominante, in particolare quello legato alle letture ispirate alla nozione di «popolo delle partite Iva». Gli autonomi e i freelance sarebbero imprenditori e, in quanto tali, producono valore e ricchezza. Non è vero: sono lavoratori che operano in autonomia e per conto terzi. Non sono evasori fiscali, come a lungo hanno creduto la sinistra e in particolare i sindacati (Cgil compresa). Per chi lavora per la P.A. (il 5,3%) o in maggioranza per i privati (65%), e ancora in un ambito non prevalente (il 23,2%) o il terzo settore (il 6,7%), evadere è molto difficile.

Tale autonomia viene invece distinta in tre modi: una condizione di autonomia completa (il 49,4% del campione ha più committenti alla pari); una di autonomia prevalente (il 33,3% ha più committenti, di cui uno principale); un’altra di monocommittenza (il 17,3%). Questa descrizione smentisce un’altro pregiudizio, diventato popolarissimo dopo l’approvazione della riforma Fornero: le partite Iva sarebbero tutte false. In realtà sono dipendenti mascherati.

Non è vero: nell’ambito del lavoro professionale la platea degli autonomi è molto più ampia di quella dei parasubordinati, come attesta l’indagine. Parliamo di working poors che lavorano con una pluralità di committenze. Più datori di lavoro ci sono, più il magro reddito può sperare di crescere. Questa relazione forte e lineare rivela un’altra realtà: le professioni che soffrono di una «povertà estrema», con redditi inferiori ai 5 mila euro lordi annui, sono quelle della cultura e dello spettacolo, i giornalisti e chi lavora nell’editoria. Ci sono anche gli archivisti e i bibliotecari e chi opera nell’area tecnico-scientifica. Chi invece percepisce un reddito superiore ai 25 mila euro lordi lavora nei settori finanziari e assicurativi, nella consulenza, nella salute, nella sicurezza del lavoro o fa il commercialista.

La ricerca attesta inoltre una forte consapevolezza dei diritti sociali, un’idea del Welfare e una disponibilità all’impegno associativo. Il 45% del campione partecipa alle attività di movimenti e gruppi auto-organizzati, la vera novità culturale e politica registrata in questo segmento del quinto stato. Il 60,6% ritiene utile la creazione di spazi di coworking e il 72% è disponibile a creare una società con i propri colleghi. La maggioranza sarebbe anche disponibile all’aumento dei contributi previdenziali, ma alle seguenti condizioni: aumento del reddito netto, maggiori detrazioni, nuove regolamentazioni collettive e una riforma previdenziale.

Ai sindacati il campione della ricerca chiede di essere consultato in maniera permanente e di aprire sportelli per servizi e tutele. Ma resta forte la distanza dalla loro cultura. Impegno associativo, auto-organizzazione, sviluppo di un’autonoma capacità negoziale: sono queste le premesse per creare una nuova cultura del lavoro indipendente senza schiacciarlo nella pur legittima identità da «dipendente non regolarizzato».

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Dossier quinto stato:

Sergio Bologna: Il futuro del lavoro, dall’operaio massa al freelance (15 aprile 2015)

I nuovi poveri sono gli autonomi a partita Iva (29 ottobre 2014)

Che cos’è il quinto stato? (23 settembre 2013)