Ora et labora, prega e lavora, come nella tradizione benedettina, è ciò che viene insegnato ai piccoli studenti di una delle scuole coraniche di Touba, città santa nel cuore del Senegal. Al suo interno ci porta il documentario di Guido Nicolás Zingari, Le porte del paradiso, vincitore lo scorso novembre del premio Movie People nel concorso Prospettive di Filmmaker Festival.
A lavoro nei campi i bambini raccolgono le arachidi, a scuola imparano il Corano, il loro maestro gli spiega che per diventare uomini forti, in grado di affrontare le sfide della vita e di differenziarsi dagli animali , è fondamentale studiare e lavorare con dedizione.

Lo sguardo del regista segue il piccolo protagonista, Hassan, mentre muove i primi passi in questo mondo nuovo per entrambi: «Siamo arrivati lì praticamente insieme», spiega Zingari. Hassan e i suoi compagni, come tutti i bambini, giocano oltre a lavorare: seduti a terra fingono di essere su un pullman che li porta in giro per il mondo – alcuni vanno in Europa, altri chiedono all’«autista» di scendere nella capitale Dakar o in Italia. Nel loro percorso di formazione per diventare adulti imitano i grandi: «La maggior parte degli immigrati senegalesi che si trovano in Italia vengono da Touba – spiega infatti il regista – mentre le loro famiglie restano in Senegal. La loro tende a essere una migrazione molto stagionale».

Il film di Zingari non si occupa però di migranti, ma al contrario realizza un ritratto dell’infanzia in questo luogo particolare dell’entroterra del Senegal, dove oltre alla ricerca per il documentario si è svolta anche quella per la sua tesi di dottorato in etnoantropologia. Allo stesso modo aveva lavorato al suo primo cortometraggio – Il mare, vincitore nel 2014 del Premio speciale della giuria di Italiana.Corti al Torino Film Festival – ambientato in un piccolo paese del sud del Togo e «realizzato in concomitanza con una ricerca etnografica sulla religione voodoo» – racconta.                 

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Il ritratto dell’infanzia nella scuola coranica di Le porte del paradiso dialoga ed entra in contrasto, nel secondo capitolo del film, con il vagabondare di un altro personaggio – un uomo anziano stavolta, Taga, che vediamo aggirarsi per le strade, spazzare per terra, vagare senza meta tra i rifiuti che si stendono ai piedi di ville di lusso. Un destino molto diverso da quello promesso ai bambini dal loro maestro se si fossero impegnati nello studio e nel lavoro.

Come è nata la ricerca alla base del documentario?
Sia Le porte del paradiso che la mia ricerca di dottorato nascono dal desiderio di approfondire la conoscenza di un luogo molto particolare del Senegal: Touba, un califfato musulmano con circa un milione di abitanti nell’entroterra del Paese; una città autonoma, come il Vaticano, governata da una confraternita. È nata durante il periodo coloniale come feudo libero che si opponeva all’occupazione militare francese. Ancora prima del colonialismo, la tratta degli schiavi aveva scatenato delle rivolte spesso capeggiate da dei leader religiosi, degli jihadisti che sceglievano la via delle armi per contrastare il commercio di esseri umani. Poi con il periodo coloniale sono apparse le confraternite, che hanno abbandonato la violenza e la lotta ai bianchi, ma hanno ereditato la rivendicazione politica, la conflittualità nei confronti dell’occupazione. La loro religione ha dei metodi educativi rigorosi ma a livello dottrinale è una versione molto moderata dell’Islam.

Come è stata scelta invece la scuola coranica in cui è ambientatala prima parte del documentario?
Ci sono arrivato per motivi personali, a seguito di un’amica senegalese che viveva con la sua famiglia in Italia e che tanti anni fa aveva fatto la ragazza alla pari a casa dei miei genitori. Quando poi è tornata in Senegal ha invitato me e mio fratello ad accompagnarla, lì abbiamo conosciuto il resto della sua famiglia e sono diventato molto amico di suo fratello. La mia è quindi una ricerca che nasce da un incontro: fare questo documentario significava anche scavare nell’infanzia del mio amico – anche aiuto regista e collaboratore nella ricerca – farne un ritratto. Non volevo tanto raccontare la scuola coranica come istituzione, in modo astratto, quanto dei personaggi.

L’elemento femminile è completamente assente nel film.
Nelle scuole coraniche raccontate da Le porte del paradiso non sono presenti ragazze perché è un ambiente esclusivamente maschile. A Touba, dove vige la Sharia, il mondo femminile e quello maschile sono separati, ma le donne non sono segregate: alle volte raggiungono delle posizioni di potere anche superiori a quelle maschili. Come in tutto il Senegal hanno un ruolo importante, e il loro lavoro è strutturale alla vita nelle scuole e nel quotidiano.

La storia di Taga è molto diversa da quella dei bambini della prima parte.
Taga è una figura completamente incerta, sospesa, a suo modo debole. Ho scelto lui tra i tanti altri personaggi che avevo a disposizione – anche figure di potere, o in generale più nitide – proprio in funzione dell’incontro che c’è nel film tra lo sguardo e la dimensione dei bambini e quello degli adulti. Mi piaceva l’idea di rovesciare l’immagine di un mondo adulto «forte». Nella prima parte del doc siamo immersi in un ambiente che chiama i bambini alla disciplina, al lavoro, alla sicurezza morale e la tensione verso la maturità. Invece poi la maturità si rivela come qualcosa che può essere anche completamente diversa. Nel finale inoltre vediamo delle ville lussuose costruite sulle macerie, in mezzo ai rifiuti che Taga attraversa: la sua figura racconta così anche il paradosso di un mondo sicuro dei suoi valori e del suo percorso, ma che allo stesso tempo è fondato su enormi contraddizioni e grandi lacune.