Il viaggio che compie Francesco Munzi in Anima nera (nelle sale il 18 settembre) è un po’ come quello di tanti italiani accompagnati per mano in Calabria dalla cronaca e dalla televisione. Neanche lui sapeva cosa avrebbe incontrato in questa esperienza che lo avrebbe messo a confronto con una terra che conosceva poco, ma poiché il cinema lo controlla bene (fin dal suo esordio Saimir che fu presentato proprio a Venezia nella sezione Orizzonti, da Il resto della notte, che era alla Quinzaine di Cannes) ha preso spunto dal romanzo di Gioacchino Criaco (edito da Rubettino) per esplorare l’Aspromonte.

Sarebbe insostenibile un altro film sulle mafie del sud, il dialetto, i personaggi da serie tv e tutto il folklore che li accompagna, non fosse che qui lo sguardo si fa più sottile nel delineare i personaggi, come se il regista compisse un lavoro di allontanamento dagli stereotipi per mezzo dello stile. Due fratelli appartenenti alla ‘ndrina hanno poche idee in testa, quel tanto che basta a controllare gli affari di droga e a investirne i proventi al nord: Luigi (Marco Leonardi, con lui prosegue alla perfezione la saga dei malavitosi all’italiana) è un trafficante internazionale, Rocco (Peppino Mazzotta, l’ispettore Fazio nella serie Montalbano) passerebbe inosservato, inserito nella sua attività milanese di imprenditore edile.

Il terzo fratello, il maggiore (Fabrizio Ferracane), fa il pastore ed è rimasto al sud con la sua famiglia, nel paese dove il padre, pastore come lui, coinvolto in un rapimento fu ammazzato e certo qualche oscuro pensiero è rimasto nella sua testa. Ma i pensieri di vendetta li ha tutti elaborati il figlio Leo che non aspetta altro che di maneggiare il fucile. Quando, come fosse una ragazzata, spara alla vetrata del negozio della famiglia «nemica» non capisce di aver riattivato un incendio che covava sotto la cenere da anni. A causa sua gli zii dovranno scendere a controllare la situazione che già ha messo in moto nuove alleanze.

La definizione dei personaggi meno standardizzata del solito potrebbe anche funzionare, la scelta dei luoghi con la montagna incombente che precipita a mare aggiunge all’intreccio un senso di rovina: siamo ad Africo, dove nel paese vecchio non restano che macerie e nella città nuova scheletri di case non terminate, luogo devastato da terremoto e alluvioni, da povertà e faide, paese che votò compatto nel ’46 per la monarchia, dove non esisteva neanche una scuola, paese spazzato via dall’alluvione del ’51, ricostruito poi a fatica mentre la gente continuava a vivere a lungo nei campi profughi, le inutili lotte contro la mafia, i voti comprati, le collusioni, una storia che non finisce mai.

Corrado Stajano ne racconta la prima parte nel suo libro Africo, una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta uscito nel ’79. Tutto l’antefatto è una catastrofe storica, il film distilla figure e fatti attraverso pochi personaggi, lascia intatte le antiche caratteristiche di comportamento (guardarsi alle spalle, tenere la schiena dritta, unità della famiglia) anche in questo caso con poche battute: in Calabria non c’è bisogno di parlare. Gli eventi precipitano quando Leo invece di aspettare imbraccia il fucile e vorrebbe farsi giustizia da solo (questo ci sembra un elemento poco credibile in una famiglia del sud dove il controllo sui componenti è simbiotico e un capo mafia avrebbe sempre un incarico all’estero da assegnare a un componente della famiglia che non si comporti a dovere).

Munzi ha intuito bene che non c’è posto in quella terra per Dioniso ma solo per le Furie. «La scommessa era entrare in una famiglia criminale, dice il regista, e mostrarne gli aspetti antimitici, mantenendo un giusto equilibrio tra empatia e compassione, ma anche senza tralasciare uno sguardo critico, lavorando sui cliché per sottrazione. Quello che mi ha colpito di più dell’Aspromonte è stato il contrasto forte tra un aspetto arcaico, come i riti pagani, e la modernità. E l’atteggiamento diffuso, che non conoscevo, di poca fiducia nello stato. Sentivo parole come ‘colonia’, ‘invasori’». Intanto per rendere possibile la realizzazione del film senza attriti sono stati creati per un anno laboratori di scrittura e di recitazione per gli abitanti del posto, offrendo poi una possibilità di lavoro, uno stile che Arcopinto (che partecipa alla realizzazione) ben conosce.