Il fratello Mohammed lo aveva previsto: l’uccisione del religioso sciita Nimr al-Nimr infiammerà gli sciiti sauditi. È successo: in migliaia sono scesi in piazza nella Provincia Orientale, a Qatif, furiosi per la condanna a morte del noto religioso, e hanno dato alle fiamme auto e pullman mentre l’esercito veniva dispiegato a protezione degli uffici governativi.

Al-Nimr è stato decapitato ieri mattina, insieme ad altri 46 detenuti, in 12 diverse città. Un’esecuzione di massa come non accadeva da 35 anni: l’ultima risale al 1980 quando a venire uccisi dalle sciabole del boia furono i 63 responsabili dell’occupazione della Grande Moschea della Mecca, tentativo fallito di rovesciare i Saud.

Il millennio è cambiato, la petromonarchia no: i critici vanno zittite. Perché se tra i 47 prigionieri buona parte erano qaedisti (tra cui il leader Faris al-Shuwail), 6 erano manifestanti sciiti. La figura più nota era Nimr al-Nimr, 56 anni, leader delle proteste del 2011 e 2012, reazione all’istituzionalizzata marginalizzazione politica ed economica della comunità (il 15% della popolazione).

È stato ucciso per “terrorismo”, equiparato ai qaedisti arrestati tra il 2003 e il 2006, membri di un’organizzazione che in Yemen è ampiamente tollerata. Guidò la sollevazione chiedendo riforme democratiche e maggiore uguaglianza, senza violenza: «Contro l’autorità [preferisco] il ruggito della parola – disse in un’intervista alla Bbc – La parola è più forte dei proiettili». È stato arrestato l’anno dopo, nel 2012, per trascorrere buona parte degli ultimi tre anni in isolamento. Nel 2014 è stato condannato a morte, dopo un processo che Amnesty ha definito colmo di irregolarità e violazioni del diritto alla difesa.

La rabbia della discriminata minoranza sciita è esplosa anche nel vicino Bahrein: manifestazioni ad est della capitale Manama sono state attaccate dalla polizia, mentre in Iran manifestanti assaltavano il consolato saudita a Mashad e toglievano la bandiera della petromonarchia. Immediata era stata poche ore prima la reazione di Teheran per un atto che radicherà lo scontro tra asse sunnita e asse sciita: «L’esecuzione di un personaggio come Sheikh Nimr, che non aveva altri mezzi che la parola per portare avanti obiettivi politici e religiosi, mostra la profondità dell’imprudenza e dell’irresponsabilità [saudite] – ha detto il Ministero degli Esteri iraniano – Il governo saudita sostiene i terroristi mentre uccide i critici in casa. Pagherà un prezzo alto».

Condanne anche dal movimento Houthi in Yemen e dall’Iraq, che aveva tentato senza successo – tramite la negoziazione dell’Ayatollah al-Sistani – uno scambio di prigionieri con Riyadh per salvare al-Nimr. Ieri parlamentari iracheni e membri dell’organizzazione Badr hanno fatto appello a Baghdad perché sospenda le relazioni diplomatiche con l’Arabia saudita (in questi giorni Riyadh ha riaperto l’ambasciata in Iraq), mentre il religioso Moqtada al-Sadr chiedeva agli sciiti sauditi e del Golfo di scendere in piazza «come deterrente all’ingiustizia e al terrorismo di Stato».

Sullo sfondo restano gli obiettivi sauditi: infiammare le tensioni mentre si tenta l’uscita dalla crisi mediorientale, allargando le distanze tra un asse sunnita indebolito e un asse sciita rafforzato dal ruolo svolto tra Siria e Iraq. Al guanto di sfida lanciato ieri Teheran non potrà non rispondere, vuoi – scrivevano ieri alcuni analisti – abbassando il prezzo del petrolio o foraggiando gli sciiti sauditi e spingerli di nuovo in piazza.

Resta in vita per ora il nipote 21enne di al-Nimr, Ali, arrestato a soli 17 anni per partecipazione alle proteste e condannato a decapitazione e crocefissione. Una brutalità che ha sollevato sdegno nella comunità internazionale. Alle accese proteste delle organizzazioni per i diritti umani ha fatto eco l’ipocrisia dell’Occidente che ha chiesto a Riyadh di annullare la condanna a morte del giovane – accusato di terrorismo e lancio di molotov – ma fa mancare del tutto reali pressioni politiche ed economiche, le uniche in grado di far breccia.

I sauditi restano interlocutori privilegiati di Europa e Stati uniti che ufficiosamente sostengono la guerra contro lo Yemen vendendo armi e fornendo intelligence. Nel 2013 (un anno dopo la violenta repressione delle proteste sciite) era stato Edward Snowden a rendere nota l’espansione della cooperazione tra la Nsa statunitense e i servizi segreti sauditi, non tanto nella regione quanto nel paese: sostegno tecnico e analitico (tecnologia e training) per fronteggiare le questioni di sicurezza interna, ovvero per migliorare la capacità saudita nell’individuare determinati individui. Che a Riyadh si traduce nell’attacco contro ogni voce critica, fatti che Washington conosce bene se nello stesso periodo il Dipartimento di Stato pubblicava un rapporto in cui imputava alla polizia saudita l’uso sistematico della tortura contro i prigionieri e la sorveglianza continua dei dissidenti.

Così l’Arabia Saudita prosegue, coperta dall’immunità degli alleati occidentali, nella violazione sistematica dei diritti umani. L’anno appena trascorso è stato il più brutale degli ultimi 20: 157 condanne a morte, pena inflitta per reati diversi, omicidio, apostasia, adulterio, spaccio. Alla morte si aggiunge la gogna: spesso i corpi dei condannati vengono esposti al pubblico, sfregio che serva da monito a chi viola la legge e chi critica il regime.