Conquistato dal vento di speranza sollevato dalla campagna elettorale di Barack Hussein Obama, l’artista americano Rob Pruitt si imbarca in un progetto ambizioso: realizzare un ritratto al giorno del futuro e ormai ex presidente, uno per ogni giorno del suo mandato, dal 20 gennaio 2009 al 20 gennaio 2017, per un totale di 2922 dipinti (The Obama Paintings). Il protocollo è semplice e prende 15-30 minuti al giorno, un approccio «slow burn» alla pittura, come andare in palestra. Ogni mattina Pruitt seleziona un’immagine del presidente da Google Images, realizza una diapositiva, la proietta sul muro, ne modifica la composizione e l’inquadratura mettendo in risalto il soggetto principale. Dipinge la tela – un quadrato di 60 cm di lato – con tre colori acrilici (rosso, blu e bianco), gli stessi dello street artist e graphic designer losangelino Shepard Fairey nei celebri ritratti di Obama. Le immagini di Pruitt sono tuttavia sfumate, a bassa definizione, più vicine alla stampa quotidiana che alla ritrattistica. Il soggetto resta nondimeno leggibile: vediamo Obama impegnato, di volta in volta, a stringere mani in incontri ufficiali o a ballare con Michelle, a parlare in pubblico dietro un podio o tra la gente, a riflettere chino sulla sua scrivania nella sala ovale della Casa bianca o a cingere medaglie al collo di eroi nazionali, con una cornetta del telefono o una palla da basket in mano e così via. Momenti della vita di un Presidente, della nazione americana, della politica internazionale. Gli sparuti eventi memorabili lasciano la scena a eventi banali, estranei al flusso politico-sociale. L’agenda di un Presidente è piena di momenti morti, come l’esistenza, lontana da un conto Instagram in cui ci si mostra instancabilmente euforici e indaffarati, tra amici prossimi e luoghi lontani. Pruitt s’interessa soprattutto ai momenti improduttivi, al «downtime». Completato il 20 gennaio 2017 con la fine del mandato di Obama, questo diario visivo pubblico – monumento non autorizzato alla presidenza Obama – costituisce secondo l’artista una sola opera. Per questo i dipinti sono esposti uno accanto all’altro, un Obama dopo l’altro, come tessere di un mosaico, senza data né titolo, senza quell’ordine cronologico che, precisa l’artista, li avrebbe trasformati in sequenze di un film. Quello che conta non è il singolo evento ma l’effetto d’insieme dove ciascuno sta, semplicemente, per l’Era Obama. Una carta da parati per arredare i nostri ultimi otto anni. The Obama Paintings è stata esposta di recente da Gavin Brown, nel Lower East Side. Nell’impossibilità d’installare la serie completa, i dipinti restanti, coperti da una pellicola di cellophane, erano consultabili su degli scaffali, manipolabili come LP di una discoteca. Il momento scelto non poteva essere più appropriato, tra un Obama ancora in carica e l’imminente insediamento del 45imo presidente. Difficile descrivere la malinconia, anzi un più viscerale groppo in gola, che si provava percorrendo la lunga sala orizzontale della galleria. Un limbo temporale, tra un passato che non è andato come si sperava – quello scarto, quella non-coincidenza tra «Yes We Can» e «Yes We Did» – ma che, visto oggi, appare miracoloso, e un futuro che nessuno aveva previsto e che ormai incombe sulla vita quotidiana di ogni cittadino americano. Visti uno accanto all’altro, tutti questi Obama – come in un ritratto di gruppo olandese – sembrano guardarci e interrogarci sulla nostra posizione di spettatori, inchiodandoci alle nostre responsabilità. HOPE, CHANGE, PROGRESS: visitando la mostra di Rob Pruitt mi vengono in mente le parole che accompagnano i ritratti di Obama di Shepard Fairey. Uscito dalla galleria, giro per downtown e realizzo che la musica è cambiata: la faccia di Trump è presa a pugni o troneggia su uno sterco. Se tremila immagini così vi sembrano insostenibili, immaginate altrettanti giorni di governo.