Nella torrida estate del 1914 anche lo scrittore austriaco Robert Musil aderì con entusiasmo alla generale e sconsiderata esaltazione per lo scoppio della Prima guerra mondiale e si arruolò come volontario al fronte. Sappiamo dalle note di diario che, fin dalle prime tappe del conflitto, Musil visse con enorme partecipazione l’evento bellico, e non mancò di definire la guerra come «una grande esperienza». E tuttavia, come molti dei suoi coetanei pieni di aspettative, anche Musil dovette registrare, all’appuntamento con la trincea, una cocente delusione. Di fronte alla mostruosa e disumana realtà del fronte, ecco che la vita di guerra si configurò pure ai suoi occhi come la massima manifestazione della reificazione e dell’anonimato.

Da queste sensazioni sul campo nascono le riflessioni post-belliche contenute nel discorso del 1922 dal titolo L’Europa inerme (Das hilflose Europa), pubblicato per la prima volta sulla della rivista «Ganymed». Il testo di Musil è ora uscito in edizione italiana, a cura di Vincenzo Vitiello e Francesco Valagussa, per i tipi di Moretti e Vitali (pp. 136, euro 14). Il volumetto è corredato anche di un fitto apparato di note e di nutrita sezione di «riflessioni» a margine del testo (pp. 61-129), con tre fondamentali contributi a firma dei due curatori Valagussa e Vitiello, e di Adone Brandalise.

Musil espone in questo discorso del 1922 – qui presentato nell’ottima traduzione di Valagussa e con la versione originale a fronte – due aspetti che in seguito diventeranno canonici negli studi sulla trasformazione dell’identità dei combattenti: l’eccezionalità dell’evento bellico e la difficoltà di trasformarlo da esperienza vissuta (Erlebnis, appunto) in esperienza nel senso di crescita (Erfahrung). La guerra, quest’evento di trasfigurazione, poteva essere sentito e vissuto ma non compreso e descritto: «Comincio con un sintomo – è questo l’incipit del discorso – (…) Senza dubbio da un decennio, e senza davvero rendercene conto, noi produciamo la storia del mondo nel modo più smaccato (…). E tuttavia in verità non abbiamo vissuto nulla (…) non siamo cambiati per nulla, abbiamo visto molto e non ci siamo accorti di niente».

Questa lacuna è determinata dalla discrepanza (che si è generata con la guerra) tra la facoltà di produrre e quella di rappresentare a sé stessi quel che si è prodotto. Musil lamenta infatti l’assenza di concetti e di sentimenti in grado di far sedimentare in esperienza quel che viene vissuto in guerra sotto forma di choc.

«Prima eravamo borghesi industriosi, e poi siamo diventati assassini, omicidi, ladri, incendiari e cose simili: e tuttavia in verità non abbiamo vissuto nulla (…) Noi eravamo un po’ di tutto e non siamo cambiati per nulla, abbiamo visto molto e non ci siamo accorti di niente. C’è soltanto una risposta, credo: noi non possedevamo i concetti per interiorizzare il vissuto».

Quel che colpisce di queste righe musiliane è la constatazione del fatto che nulla di essenziale è cambiato, e questo nonostante i grandi rivolgimenti geopolitici portati dal conflitto. Nella Prima guerra mondiale i soldati tornavano ammutoliti dalle zone di guerra, incapaci di raccogliere le manifestazioni disperse e frammentarie del vissuto in una visione perspicua. In questo scenario di morte ad imporsi è stato allora il silenzio, come molti hanno evidenziato, e come ha magistralmente teorizzato Walter Benjamin in alcune famose pagine di Esperienza e povertà (del 1933). All’unisono con Benjamin, anche per Musil il punto di volta storico della Grande Guerra ha generato una stirpe di uomini nuovi, incapaci di fare esperienza e di lasciare tracce della loro presenza. Nel testo L’Europa inerme ovvero Viaggio di palo in frasca Musil sottolinea come l’esperienza della guerra abbia messo a fuoco la «liquidità» dell’uomo, la sua duttilità, adattabilità, leggerezza, la sua capacità di trasformarsi da cannibale a lettore della kantiana Critica della ragion pura. Secondo questa concezione musiliana, l’uomo non possiede un suo proprio apparato immutabile, ma piuttosto assume di volta in volta le sue forme di vita. Ben lungi dal profilarsi come una costante, l’«uomo senza qualità» di Musil è piuttosto un valore mutevole, sottoposto a una serie incalzante di spinte centrifughe. La situazione bellica ha reso possibile smascherare l’inquietante flessibilità della natura umana, visto che in trincea il soldato mette in atto un continuo pendolarismo dal ruolo di eroe allo stadio di assassino.

Queste repentine e inquietanti metamorfosi riguardano, però, così precisa Musil, solo l’aspetto esterno dell’uomo, mentre l’essenza umana resta immutata, e coloro che rientrano dalle trincee tornano, ignari dell’accaduto, nella presunta normalità: «Sin dal 1914 l’uomo si è dimostrato una massa sorprendentemente molto più malleabile di quanto si era disposti ad accettare comunemente (…)l’esperienza della guerra ha confermato a tutti, in un enorme esperimento di massa, che l’uomo può dirigersi facilmente verso gli estremi più impensabili e tornare indietro, senza cambiare nella propria essenza. Costui cambia, ma non cambia sé stesso».

La Grande Guerra viene presentata allora come l’evento che ha consegnato al presente un’umanità informe, una «sostanza colloidale» che si adatta alle forme, non le plasma. Forse le antenne sottili di Musil avevano già compreso nel 1922 come questa condizione fosse il tragico presupposto delle altre catastrofi a venire.