«I presidenti vanno e vengono». Robert Redford ha esordito così alla prima domanda che gli è stata rivolta durante la conferenza stampa d’apertura del Sundance Film Festival numero 31. Era, come altre che l’hanno seguita, una domanda sulla sua reazione ai «tempi bui» anticipati dall’inaugurazione di Trump. Ma se quella che rimane la mente e il cuore della manifestazione di Park City e dell’Istituto da cui è nata, ha evitato la tentazione di un «confronto diretto» («Il Sundance, per scelta, non fa politica. Garantisce la libertà d’espressione degli autori che vi partecipano. Oggi la nostra missione non cambia»), e quindi di soddisfare la furia creativa via Twitter del nuovo presidente, il messaggio tra le righe era più che ovvio.

Redford ha scelto infatti di evocare la nascita del Sundance Institute, per cui vanno ringraziati i 25.000 dollari stanziati, nel 1981 (l’anno dell’elezione di Ronald Reagan), dal National Endowment for the Arts, una delle agenzie federali nel mirino della lista di tagli fornita alla nuova amministrazione dal think tank conservatore Heritage Foundation. Trump ha anticipato che affronterà alcuni di quei tagli nei giorni immediatamente successivi alla sua entrata in carica. Senza quei soldi, ha detto Redford, oggi non saremo qui – le cifre dell’edizione 2016 del festival affidate a un breve comunicato stampa distribuito all’ingresso: 188 film, 46.600 presenze; un’attività economica pari a 143.302.000 di dollari con un impatto sul GSP dello Utah di 72.539.000.

E, per un’altra interessante lezione di Storia, Redford ha ricordato il periodo in cui lavorava, con Carl Bernstein, Bob Woodward e l’allora direttore del «Washington Post» Ben Bradlee, al suo film su Watergate, Tutti gli uomini de presidente. «Mi colpì moltissimo l’intensità dell’inchiesta, la volontà di scavare nei fatti. L’enfasi sulla ricerca e l’insistenza di Bradlee sul valore della ’storia’, sono stati importantissimi in quello che sarebbe diventato il mio approccio ’giornalistico’ al cinema. É una lezione del giornalismo che si ritrova nei documentari, oggi più importanti che mai visto che i media vivono ormai di sound bites che si avvicendano uno all’altro senza il tempo di essere digeriti».

«L’arte e la natura sono stati i due fari della mia vita», ha detto ancora l’attore/regista e noto attivista ambientale, anticipando che «quando agli americani verranno veramente tolte delle cose sarà inevitabile la nascita di un movimento».
Uno degli altri film, insieme a An Inconvenient Sequel, scelti per aprire il festival echeggiava la sua fiducia in quella prospettiva: Whose Streets? il documentario (in concorso) della regista di Brooklyn Sabaah Folayan, sulle riots scoppiate a Ferguson dopo l’omicidio di Michael Brown, e sulla formazione di #Black Lives Matter. Strategica, circospetta, rispetto a quella più facilmente caricaturabile che emana direttamente da Hollywood o dalle manifestazioni che si tengono/terranno a New York, e persino della marcia prevista qui a Park City sabato mattina, la mobilitazione suggerita dal padre fondatore di Sundance porta con sé lo stesso messaggio: ci sarà da lavorare.