Rojava si riposiziona, nel tentativo arduo di non perdere il terreno conquistato tra le pieghe barbare della guerra siriana. Dopo i diktat Usa e l’aggressione turca, le Unità di Difesa Popolare (Ypg) ribadiscono la propria autonomia, consce che le alleanze di questi mesi erano – per le controparti – meri matrimoni di interesse, sacrificabili non appena necessario.

Così è stato con la Russia, con Damasco e con gli Stati Uniti. Sfidare apertamente la Turchia a Jarabulus sarebbe un massacro. E allora le Ypg guardano di nuovo ad est, a Raqqa. La “capitale” dello Stato Islamico è stata volutamente dimenticata dalle potenze internazionali: dopo i pochi raid francesi in risposta agli attacchi Isis del 13 novembre a Parigi, gli islamisti sono stati lasciati nuovamente indisturbati.

Come indisturbata era stata l’occupazione di Jarabulus, fino a quando non è diventata strumentale ai progetti turchi di porre fine all’anelata riunificazione dei cantoni kurdi di Rojava: quello di Afrin, nell’estremo ovest siriano, con quelli di Kobane al centro e quello di Jazire a est.

Ieri, dopo il tradimento in diretta di Biden che ha imposto il ritiro oltre l’Eufrate, il portavoce delle Ypg Xelil ha reagito: «Lo Stato turco non può decidere la nostra posizione a seconda dei suoi interessi. Le nostre forze resteranno lì e da lì non si ritireranno».

E qua compaiono le prime discrepanze sull’effettiva posizione kurda post-invasione: ieri Biden regalava ad Ankara la notizia dell’inizio del ritiro, per venire smentito poco dopo dalle Ypg. Secondo i leader kurdi, le Forze Democratiche Siriane (la federazione di kurdi, arabi, turkmeni, circassi che ha liberato Manbij) sono ancora a ovest dell’Eufrate: solo una parte si sarebbe riportata ad est per lanciare una nuova controffensiva su Raqqa.

Certo è che per Rojava è questo il momento di reggere il colpo. Le ore successive alla cacciata dell’Isis da Jarabulus – fuggito senza combattere – sono state teatro di scontri tra Ypg e Esercito Libero Siriano sotto l’ala protettiva turca. A spingere le Ypg verso est sono i “ribelli” improvvisamente invincibili contro il “califfo”: hanno attaccato il villaggio di Amarna controllato dal Consiglio Militare di Manbij, la città kurda da poco liberata.

Intanto il generale turco Aksakalli (premiato con la promozione dopo le purghe post-golpe che hanno decapitato l’esercito) ispezionava Jarabulus, una processione da vincitore tra strade vuote e abbracci ai “ribelli”. Forse dell’Esercito Libero, forse del salafita Ahrar al-Sham. Di civili neanche l’ombra, una città fantasma. Dopo la fuga preventiva di martedì di 3mila civili, pochissimi sarebbero rimasti. E non hanno accolto i “liberatori” come fece Manbij con le Ypg.

Perché l’operazione Scudo dell’Eufrate del presidente Erdogan non è affatto finita. È appena iniziata. Dopo aver eliminato il “problema” Isis, è tempo di realizzare il vero obiettivo: impedire l’unità dei cantoni di Rojava attraverso la realizzazione dell’agognata zona cuscinetto, un corridoio lungo 110 km e largo 33 che corra da Afrin a Kobane.

Da due anni il governo turco parla della necessità di una zona cuscinetto, camuffando gli effettivi interessi con l’importanza di una “safe zone” in cui infilare i rifugiati siriani e addestrare le opposizioni.

Anche Scudo dell’Eufrate avrebbe due anni: a dirlo è un alto funzionario turco all’agenzia Daily Sabah, anonimamente: «Siamo stati ritardati da tre fattori: gli Usa non pensavano fosse un piano praticabile a causa del basso numero di ribelli; i vertici dell’esercito posponevano l’attacco a Daesh per incapacità bellica; e poi la crisi con la Russia».

Ora invece si va avanti spediti: altri carri armati hanno attraversato il confine, mentre agli attuali 450 soldati turchi in Siria se ne aggiungeranno altri, fino ad un massimo stimato di 15mila. Un funzionario turco – in condizione di anonimato – ha elencato i prossimi passi da compiere: «Abbiamo bisogno di macchinari da costruzione per aprire le strade e mezzi di trasporto per il personale».

In mattinata il ministro della Difesa Isik ha parlato di «messa in sicurezza dell’area»: «È nostro diritto restare [in Siria] fino a quando le opposizioni non avranno assunto il controllo della zona». E fino a quando le forze kurde non si saranno completamente spostate a est dell’Eufrate, un ritiro che secondo Isik richiederà 15 giorni: «L’Isis dovrebbe essere completamente cacciato. Ma non è abbastanza: le Ypg non devono sostituirlo. Non lasceremo che accada».

Nel silenzio generale: fino a poco fa un’invasione turca avrebbe scatenato le ire di Mosca, Damasco e Teheran. Ora le prime due fingono fastidio, senza troppo impegno. La terza tace. Forse perché imbarazzata, forse soddisfatta di un’azione anti-kurda. O forse perché, paventano fonti interne a Asharq al-Awsat, è l’Iran a mediare tra governo turco e siriano, a mantenere aperte le comunicazioni che avrebbero portato in pochi giorni all’attacco di Damasco contro Hasakah e a quello di Ankara contro Jarabulus. Do ut des: Erdogan ammordirà la sua posizione su Assad in cambio dell’impegno di Damasco a impedire la nascita di un’entità kurda a nord.