Forse è mafia, forse no e il dubbio è più che lecito dal momento che, ove si trattasse certamente di criminalità organizzata e non di mere associazione finalizzata alla corruzione, il mancato scioglimento del Consiglio comunale di Roma si spiegherebbe con fatica estrema. Ma di certo il quadro che emerge della politica tutta, senza distinzione di colore, ideologia o fazione è tanto lurido e desolato che al confronto cavarsela con il distruttivo intervento di un mariuolo conclamato come Carminati Massimo sarebbe persino rassicurante.

Si parla della seconda tranche dell’inchiesta Mafia Capitale: 44 arresti eseguiti ieri mattina, 428 pagine di ordinanza d’arresto firmate dal gip Flavia Costantini che valgono più di ogni analisi politico-sociale sulla situazione del Paese. In più, sembra, un drappello di indagati, una ventina, nomi ancora sconosciuti ma che potrebbero fare la differenza perché se ci fosse qualcuno interno alla Giunta comunale la sorte del sindaco Marino sarebbe segnata.
In mezzo c’è di tutto: immigrati perché quelli di soldi ne valgono tanti, e poi appalti Ama, anche la spazzatura paga bene, turbative d’asta per comprarsi a due soldi decine d’appartamenti col sindaco che neppure si accorge delle delibere che gli passano sotto gli occhi, interventi a gamba tesa per piazzare persone di fiducia o a libro paga nei punti nevralgici, perché il sindaco non sarà un gran che come guardiano ma è onesto e qualcosa prova a fare.

Tanto che quando viene eletto Salvatore Buzzi, capo della principale cooperativa rossa della Capitale si dispera: con i nomi a libro paga se perdeva era un affarone. Ma la fase depressiva dura poco. L’ex detenuto ci mette poco a scoprire che il sindaco ha ottime attenzioni ma capacità esigue. Tempo qualche mese ed esulta: «Se resta sindaco io col mio capogruppo ce magnamo Roma». Buon appetito.

Sì, sarebbe tranquillizzante poter dire che se la Capitale, come del resto ogni metropoli italiana o quasi, è sprofondata nelle fogne la colpa è del Nero, con quel suo alto profilo criminale che gli inquirenti non si dimenticano mai di ricordare. Invece no. Il mariuolo c’è e comanda, ma la devastazione se l’è trovata di fronte bella e pronta. Sta nel presidente del Consiglio comunale Mirko Coratti, Pd, del quale Salvatore Buzzi può dire a più riprese: «Me lo so’ comprato. Sta con me», salvo poi lamentarsi perché anche solo per un primo incontro interlocutorio, «un caffè», il compagno presidente chiede l’esborso di una decina di migliaia di euro. Investimento utile, essendoci di mezzo un appalto Ama da leccarsi i baffi, però «figurati se c’era pure il cappuccino!».
Sta nella disponibilità incondizionata, ma anche ben remunerata e prezzo fisso, di «Giordano», come amichevolmente Buzzi chiama il potentissimo consigliere e ras forzista Tredicine: «A noi Giordano c’ha sposati e semo felici de sta’ con Giordano». Tipo peraltro gradito addirittura a Carminati stesso: «E’ uno poco chiacchierato pure se fa un milione di impicci». Ma per guardare a destra non scherza nemmeno Luca Gramazio, capogruppo Fi in consiglio comunale prima e poi in Regione, un quasi onnipotente prezioso in ogni occasione, e dunque indispensabile nel libro paga tanto da meritarsi addirittura un incontro, insieme al padre Domenico, fondatore della stirpe, col cecato in persona.

Di quattrini ne dava a palate Salvatore Buzzi, ma erano ben spesi. I pagamenti erano parte di una strategia precisa, esposta dall’ex detenuto diventato imprenditore in termini magari rustici ma efficaci: «Per mungere la vacca bisogna ingrassarla». E a farsi ingrassare per poi permettere di mungere il comune, se le accuse saranno provate, erano in tanti. Pierpaolo Pedetti, presidente commissione Patrimoni, Stefano Venditti allora presidente della Lega Coop Lazio, Massimo Caprari, ex capogruppo Centro democratico , Andrea Tassone presidente del Municipio di Ostia.
Parlare di «una banda di destra», come ha fatto ieri il Pd è ridicolo. Ma lo sarebbe altrettanto parlare di corruzione rossa. Le distinzioni ideologiche sono un retaggio del passato che ingombra e impaccia. La frase chiave di questa inchiesta la pronuncia gongolante il solito Buzzi: «Stiamo di qua, stiamo di là». Il mercato è aperto e non si guarda per il sottile.

Ma da desertificazione della politica sta forse soprattutto nei calcoli da ragioniere dell’orrore di Luca Odevaine, troppe cariche per enumerarle tutte, uomo chiave della Giunta Veltroni e poi della Melandri. Con i collaboratori conta il valore di ogni singolo immigrato, li somma per ogni singolo centro d’accoglienza poi tira le somme di quanto debbano pagare Buzzi, che con i centri del Lazio guadagna bene e quanto i cattolici della Cascina, la cooperativa di Comunione e Liberazione, che soprattutto col Cara di Mineo incameravano molto di più, e dovevano saldare in proporzione. Diecimila al mese, per cominciare, ma non bastano perché il bestiame umano dopo un po’ raddoppia e quindi deve crescere in proporzione il prezzo: ventimila. Del resto quel che la Cascina incassa ha uno scopo, almeno stando alle concioni di Odevaine, anche direttamente politico: ci stanno loro, sostiene il ras dell’immigrazione, dietro la scissione che dà vita all’Ncd di Angelino Alfano e Maurizio Lupi.

Della Casina ieri è stato ammanettato l’intero vertice: Salvatore Menolascina, Francesco Ferrara, Domenico Cammissa, Carmelo Parabita. Il management della cooperative di Cl al gran completo.

Nella prima tranche dell’inchiesta l’assenza del mondo cattolico aveva stupito un po’ tutti. In questa storiaccia, in cui forse ci ha messo lo zampino anche la mafia ma che resta soprattutto una classica vicenda di appalti, mazzette e corruzione diffusa, sembrava assurdo che mancasse l’altra metà del quadro, le cooperative bianche. Si sa che ovunque, non solo a Roma, la spartizione è secca: le cooperative rosse e quelle cattoliche, potentati organizzati e ben radicati, di antica tradizione, e poi i voraci esponenti del centrodestra di derivazione An, più ruspanti, incapaci di dare vita a una loro specifica struttura di cooperative e quindi pronti ad allearsi con chiunque si offrisse sul mercato, fosse pure l’ex arcinemico a capo della cooperativa rossa 29 giugno, Salvatore Buzzi.

I cattolici differiscono dagli altri solo perché più timidi, più spaventati, magari pure un po’ più taccagni. Le intercettazioni di Luca Odevaine sono un cahier des doléances permanente: quelli non pagano, tirano sul prezzo, «sono paranoici» e siccome temono l’arresto hanno interrotto il flusso. Figurarsi, con uno come il ras dell’immigrazione. E poi non sanno come pagare, paranoici appunto, perché temono di essere rintracciati e il povero Luca deve ricorrere a commercialisti e azzeccagarbugli a non finire per portare a casa, e poi esportare il gruzzoletto. Roba da Lupo di Wall Street, persino ammirevole per costanza e astuzia.
Roma è stata fino a pochi mesi fa una fogna in cui tutti erano in vendita e tutto, proprio tutto, poteva essere munto, con gli agganci e gli stipendiati giusti. E tuttavia, la domanda inziale resta inevasa: è mafia. Lo si capirà meglio al processo, che arriverà presto, già in novembre. Ma anche se venisse fuori che proprio di mafia si tratta, sia pure in veste e forme piuttosto anomale, nascondere sotto il manto tutto sommato rassicurante e assolutorio della criminalità quello che invece è un sistema politico a pieno titolo resterebbe un suicidio.