Lunedì Ignazio Marino presenterà la sue dimissioni «irrevocabili». Tutti gli scenari che lo volevano deciso a resistere sino all’ultimo sono solo «veleno privo di fondamento». Parola del diretto interessato, che arriva però al termine di una giornata in cui tutto sembrava indicare esiti opposti. Venticinque consiglieri su 48, inclusi una decina di esponenti del Pd, erano contrari alle dimissioni. Sel e la Lista Marino lasciavano aperta la porta a una verifica. «È ovvio – diceva a metà pomeriggio il segretario di Sel romana Paolo Cento – che Marino deve formalizzare le dimissioni. Poi vedremo cosa dirà. Il 27 luglio scorso, quando ha rotto con Sel mettendosi nelle mani del Pd più renziano, ha decretato la sua stessa rovina. Se verrà a dire che vuole tornare quello dell’inizio del suo mandato, ne discuteremo. Nelle mani dei poteri forti ci si è messo proprio con quella rottura del luglio scorso, vedremo».

Lo stesso Marino tutto sembrava tranne che un ex sindaco. Ha passato tutta la giornata al Campidoglio, come se nulla fosse. Nel pomeriggio ha riunito i presidenti di Municipio, che sarebbero in maggioranza pronti a resistere con lui. Ha disertato all’ultimo momento il programma di Fabio Fazio Che tempo fa, ma anche questa sembrava una mossa tutt’altro che rinunciataria. Marino ha spiegato agli intimi la scelta di evitare l’intervista in diretta con la certezza che qualsiasi sua parola sarebbe stata strumentalizzata e usata contro di lui. Una preoccupazione che sembrava indicare la scelta di provare a resistere senza dar corso alle dimissioni promesse.

Tanto alta era la preoccupazione in casa Pd che è uscito allo scoperto, con un durissimo attacco, proprio l’ex protettore del primo cittadino in uscita, il presidente del partito Matteo Orfini: «Una infinita seria di errori hanno definitivamente compromesso autorevolezza e credibilità del sindaco». Una sentenza senza appello, accompagnata da pressioni discrete ma fortissime sui consiglieri Pd riottosi perché abbandonassero al suo destino il defenestrato. Forse Ignazio Marino si è davvero arreso di fronte alla determinazione di Renzi. Forse intende invece dare battaglia ma solo dopo aver messo sul tavolo le sue dimissioni. Si vedrà lunedì.

Per capire se a Roma si voterà davvero in maggio, invece, ci vorrà un po’ di più. Il Pd e il governo sono tentatissimi dal rinviare tutto a dopo il Giubileo. L’eco del caso Marino sarebbe così stemperata, e il rischio di dover consegnare Roma all’M5S calerebbe bruscamente. Renzi, inoltre, eviterebbe di aggiungere litri di benzina su una tornata elettorale per lui tutt’altro che facile. Inoltre al momento un candidato da schierare il premier non lo ha. Tre dei «tecnici» considerati papabili, Malagò, Cantone e Sabella, hanno negato ieri la loro disponibilità. Il prefetto Gabrielli punta alla poltrona di capo della polizia. Resta Andrea Riccardi, che in realtà dovrebbe essere il candidato su cui più punta Renzi, ma non è detto che accetti e ancor meno è detto che ce la possa fare. Tra un anno e mezzo tutto sarebbe molto più facile.
Ad aprire le danze è il capogruppo del Pd al senato Zanda, intervistato dal principale quotidiano romano, Il Messaggero: «Sarebbe molto importante far svolgere le elezioni a Roma dopo la fine del Giubileo». Raccoglie la palla il viceministro degli interni Bubbico, che non conferma e non smentisce, il che in casi come questo equivale ad ammettere che l’ipotesi è sul tavolo: «Tecnicamente è possibile e io credo che sia doveroso approfondire tutte le questioni». Roba che nemmeno un vecchio democristiano dei bei tempi…
Il problema è che c’è ben poco da approfondire. La scelta è tutta e solo politica. L’idea di commissariare la Capitale per un anno, coltivata un po’ oziosamente prima che la pentola romana esplodesse, pare impraticabile. Resterebbe solo la mossa estrema del decreto. «Tecnicamente», come asserisce dotto il viceministro, è possibile. Politicamente e in termini di opinione pubblica un bel po’ di meno. Vorrebbe dire imporlo a tutte le opposizioni, con uno scontro durissimo in aula, e probabilmente dovendo ricorrere al voto di fiducia. Vorrebbe dire accreditare in un colpo solo tutte le accuse dell’M5S e forse a quel punto tanto varrebbe assegnare a Grillo la vittoria, sia pure un anno più tardi, per forfait. Ma un tipo come Matteo Renzi, il cui disprezzo per le regole è secondo solo a quello che manifesta nei confronti del parlamento, potrebbe davvero optare per un azzardo simile.