Quando appare, nella sua prima versione, dopo sette anni di lavoro, nel 1939, Tropismes, di Nathalie Sarraute (1900-1999), viene pressoché misconosciuto dalla critica letteraria francese. Sebbene Jean-Paul Sartre e Max Jacob si congratulino personalmente con l’esordiente scrittrice di origini russe, l’unica recensione al volumetto appare su un foglio belga e non oltrepassa De Panne. Trainata dalla pubblicazione dei saggi raccolti in L’età del sospetto (1956), la seconda edizione (per Minuit, nel ’57) mette invece Sarraute al centro della scena parigina nel ruolo di protagonista, insieme agli altri scrittori arruolati da Alain Robbe-Grillet, con un po’ di approssimazione e perfetto tempismo, sotto le insegne del «Nouveau roman», del dibattito letterario. In mezzo, oltre a Marterau (1953), il romanzo Portrait d’un inconnu (1948), a proposito del quale proprio Sartre conia un’espressione rimasta canonica nella interpretazione critica di Nathalie Sarraute: «lei non vuole prendere i suoi personaggi né per il dentro né per il fuori poiché noi siamo, per noi stessi e per gli altri, tutt’insieme, tutt’interi dentro e fuori. L’esterno è terreno neutro, è quell’intimo di noi stessi che vogliamo essere per gli altri e che gli altri ci incoraggiano a essere per noi. È il regno del luogo comune (…) Il luogo comune è di tutti e mi appartiene; appartiene a tutti in me; è la presenza di tutti in me». Una sintesi che migliore non si potrebbe di uno degli aspetti essenziali del pensiero e della pratica artistici di Sarraute.
Pensiero e pratica che, protrattisi da allora per più di mezzo secolo, sono sempre rimasti coerenti con quel nucleo primigenio che viene oggi riproposto da noi nella storica traduzione di Oreste del Buono (vera e propria emanazione italiana, negli anni sessanta, delle nuove istanze romanzesche d’oltralpe): Tropismi (postfazione di Arnaud Rykner, nonostante edizioni, pp. 115, € 15,00). Un concentrato di poetica in atto che attraverso la figura del tropismo – ovvero, in biologia, quella reazione di orientamento causata da agenti chimici o fisici (il più esemplare di tutti è l’eliotropismo dei girasoli) – traduce il groviglio di sentimenti ed emozioni che una persona (essere umano tout court prima ancora che uomo o donna) catalizza, quasi inconsciamente, verso un determinato attimo, un particolare stimolo sensibile della realtà.
Difficile, per questo motivo, catalogare in qualche modo i ventiquattro capitoli (corrispondenti ad altrettanti tropismi) di un libro che forse, al momento della sua apparizione, aveva un unico precedente analogo in Nadja, di André Breton, o nel lavoro di Marcel Proust. E difatti, a ben vedere, per Sarraute il tropismo è esattamente qualcosa di simile alle intermittenze del cuore proustiane (o alle epifanie di Joyce) deprivate di tutto il contesto romanzesco. Pure, se proprio volessimo definire quelli che nemmeno possono ritenersi racconti o poesie in prosa, una soluzione potrebbe essere quella di considerare Tropismi un romanzo corale in cui i personaggi sono fermo-immagine emotivi: poco conta l’effettiva identità delle figure che di volta in volta si avvicendano nelle differenti lasse. Esse rappresentano, tutte, molteplici declinazioni di un indistinto soggetto la cui identità, messa costantemente in discussione, si raggruma intorno a un nucleo verbale e materico allo stesso tempo, che non è altro se non un’approssimazione al cuore delle cose; soggetto indistinto ma non equivalente perché, nota opportunamente Rykner, «è per tale ragione che quest’opera singolare è tutto fuorché un’opera intellettuale, astratta, mondana. Se il mondo è certamente il terreno di questa indagine, è un mondo sempre duplice, dove il carattere pacifico delle apparenze non fa che occultare il brulichio sotterraneo della psiche, e dove l’innocenza degli scambi sociali maschera a fatica lo scontro disordinato di diversi e contradditori voler vivere. Se infatti nel tropismo tutti ci assomigliamo, ciò che il tropismo ci dice in modo implicito, è che siamo fondamentalmente incompatibili l’uno con l’altro».
Pertanto, il guanto che raccoglie qui Sarraute è quello della sfida che il reale, sempre un passo avanti rispetto alle forme convenzionali con le quali lo interpretiamo, lancia a ogni singolo istante dell’esistenza, laddove «il più piccolo movimento, andare in bagno a lavarsi le mani, far scorrere l’acqua del rubinetto, pare una provocazione, un atto di coraggio». Nella lingua di Tropismi non c’è più confine tra interno ed esterno, cosciente e non cosciente, ma un flusso costante di associazioni che sfugge a qualsiasi logica prestabilita catturando l’attenzione del lettore senza dargli facili coordinate (il feticcio della trama, per intenderci), ma gettandolo immediatamente in situazione: di qui il diradarsi dei dialoghi, da cui Sarraute (come farà in maniera ancora più esemplare ne I frutti d’oro, del 1963) isola singole battute evocative sottraendole alla prevedibile dinamica del botta e risposta; di qui lo sguardo anonimo (ma non oggettivo) che si posa su scenari e paesaggi per descrivere i quali non c’è aggettivo che non sia un inutile compromesso discriminatorio; e di qui, ancora, la frizione tra letteratura (cioè arte) e vita. Un impasse che è tanto il punto di partenza che lo scoglio su cui si frange, senza soluzione di continuità, l’indagine della parola scritta; quell’instancabile ricerca che Nathalie Sarraute, nel dodicesimo tropismo (quello in cui un professore del Collége de France fruga «nei punti nascosti» di due grandi scrittori), così condensa in una chiusa ilare e cupa come una smorfia di Buster Keaton: «Evitando i negozi pieni di belle cose, le donne che camminavano a passo frettoloso, i camerieri dei caffè, gli studenti di medicina, i poliziotti, i commessi dei notai, Rimbaud o Proust, scacciati dalla vita, respinti fuori di essa e privi di aiuto, erano costretti a errare senza posa lungo le strade, o a sonnecchiare, la testa reclina sul petto, in qualche giardinetto polveroso».