In principio era la Cina: si tratta in verità di un ritorno, perché Ai Weiwei dalla Cina scappò a 24 anni nel 1981 e vi è tornato solo nel 1993 a 36 anni. Da allora, già ventidue anni di vita sua e di storia umana, il suo obiettivo è stato ritrovare le origini, naturali e monumentali, di una cultura che si è persa nella paura della censura e nell’omaggio al regime. Le sue opere dal ritorno a oggi sono ora esposte alla Royal Academy of Arts di Londra, in una mostra che si propone di valorizzare l’artista al di là dell’attività politica che l’ha reso famoso in tutto il mondo (Ai Weiwei, fino al 13 dicembre; catalogo con contributi di Tim Marlow, John Tancock, Daniel Rosbottom e Adrian Locke, Royal Academy of Arts, pp. 240, £ 48,00): chi non ricorda la geniale trasformazione della canzone più cafona del secolo, Gangnam style, in un geometrico e collettivo grido di protesta contro ogni repressione della libertà di parola? Oppure il suo dito medio alzato sullo sfondo a distanza di una spettrale piazza Tienanmen a Pechino?

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Il doppio piano – pop e colto, ma anche antico e moderno, nonché naturale e tecnologico – è infatti una costante nell’opera di Ai Weiwei, che sa sempre stare dentro e accanto alla sua opera, insieme totalmente immerso e sapientemente distante: qui ci sono io, le mie radici, la mia storia, con tutta la mia fisicità, il mio corpo, ma qui c’è anche una storia collettiva, di identità e perdita, che l’urgenza di dirsi porta con sé e non può tuttavia schiacciare. La storia cinese non sarà più un peso, immobile e soffocante, ma la materia di cui è fatta la vita quotidiana: la Cina è il letto su cui tutti giacciono, legnoferro piallato e compattato per riprodurre su un piano a rilievo orografie e confini (Bed, 2004). Qui i falegnami hanno lavorato con le loro mani prima di diventare operai tutti uguali grazie alla rivoluzione culturale del 1966: restituire agli antichi mestieri la loro dignità preindustriale significa certo rivendicare la priorità del corpo sulla macchina, in protesta contro la civiltà della tecnica, ma anche riflettere sull’artigianato dell’opera d’arte, che è manufatto contenente l’idea anziché prodotto dell’idea.

Umanizzando Duchamp, antiplatonico per vocazione, Ai Weiwei impiega carpentieri, fabbri e falegnami nel suo laboratorio, ma chiede loro di confrontarsi con il prodotto da fare anziché con la soluzione al problema compositivo: proibiti chiodi, viti e colla, il materiale si incastra a tenone e mortasa, come ai vecchi tempi. Nessun rigurgito di ideologicissimo operaismo, però, antimoderno e protocapitalistico: pezzi di templi abbandonati, dismessi o abbattuti della dinastia Qing riaffiorano continuamente nelle sue opere, a marcare la transizione tra l’estetica cinese classica, irrimediabilmente compromessa con il potere e la propaganda, eppure armoniosamente essenziale, e l’estetica postmoderna, che ammassa e riusa le rovine come materiali da riporto piuttosto che reliquie. Segnato dall’esperienza avanguardistica del gruppo pechinese Stars e dal passaggio newyorkese tra 1981 e 1993, Ai Weiwei non può essere, né politicamente né esteticamente, un nostalgico della Cina che fu: il culto della forma, che dà senso all’insieme, glorifica una poetica della trasformazione e dell’inutile, alla cui base stanno geometrie primarie, astrazioni concettuali e impraticabilità oggettive. Il tavolo con due gambe sul muro (1997) e le sedie riunite a grappolo a formare un cerchio (Grapes, 2010) esaltano il nonsense e sfidano la gravità, facendo dell’opera d’arte una provocazione assoluta alla società consumistica e alla conoscenza rassicurante. Se non servono, gli oggetti significheranno: al contrario della pop art, che dà dignità all’oggetto, l’esperienza di Ai Weiwei lo svincola dalla sua oggettualità e lo traspone sul piano di un’interrogazione metafisica. Dall’essere prigioniero (gli ammassi di oggetti costretti a forma) si sprigiona un’eccezionale energia creativa, che sfida la storia e la percezione con un gesto che chiede di essere decostruito: al dolore non c’è consolazione, ma le barre d’acciaio raddrizzate e composte orograficamente in un memorial per i 5196 caduti (tutti studenti) del terremoto nella provincia di Sichuan nel 2008 (Straight, 2008-2012) ricordano la terribile complicità umana nelle conseguenze delle catastrofi naturali. Erano tutte scuole, infatti, gli edifici che crollarono, circa cinquanta, costruite malamente per motivi speculativi, le cosiddette «tofu-dregs constructions», edilizia a rimasugli di tofu: da lì, dalle macerie, provengono le barre, che i lavoratori di Ai hanno riportato alla forma originale. Il caos ridotto a ordine non ricompone, ma destabilizza e denuncia: un impegno dello stile, che non è didascalica retorica, ma effetto, shock senza catarsi.

Armonioso (He Xie), parola-chiave della propaganda governativa cinese, è sinonimo di «granchi di fiume», presso i quali Ai Weiwei invitò amici e seguaci a radunarsi per celebrare il completamento e la demolizione dello studio a Malu Town che il governo di Shanghai gli aveva richiesto, ma il governo federale aveva proibito e ordinato di distruggere: smontare la contraddizione ha prodotto un’urna funeraria di 2 metri x 5 con i resti dei mattoni dopo la demolizione (He Xie, 2011). Vittima della censura di regime, incarcerato per 81 giorni e privato di passaporto dall’aprile 2011 fino al luglio 2015, Ai Weiwei porta su di sé lo stigma della ribellione, perché suo padre, il grande poeta Ai Qing, fu arrestato e perseguitato per aver difeso l’amico e scrittore Ding Ling dall’accusa di essere un uomo di destra, contrario alla collettivizzazione e fautore del capitalismo, durante la grande repressione del 1957-’59 (Weiwei era appena nato): di qui un vitalismo estremo, che lo ha portato a sperimentare materiali straordinariamente vari (legno, ceramica, marmo su tutti) e linguaggi ormai codificati (dalla performance pubblica all’istallazione museale) ma spinti al confine, in modo da esplorare i margini di un’umanità che non conosce riscatto perché vive l’obbedienza come paura anziché come scelta. Distruggere un vaso della dinastia Han, pitturargli sopra la scritta Coca-Cola e rifarlo in ceramica ricoperta di acrilico sono lo stesso gesto iconoclasta, demistificante e decostruttivo, di chi l’autorità è disposto ad assorbirla per metterla in questione, ma mai a subirla, introiettandola senza farsene schiavo.

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La carica politica è innegabile, ma appunto non passa solo attraverso i gesti scandalosi, l’attivismo militante e la divulgazione ideologica: è piuttosto un atto formale, di chi sa guardare all’estetica oltre che all’etica del messaggio. Dare forma significa far implodere dall’interno le contraddizioni che quella forma, in condizioni abituali, cercherebbe di ricomporre o di nascondere: nessuna nuova Cina esisterà se la vecchia Cina è ridotta in macerie, senza memoria e senza coraggio. Fino a subirne la nemesi, perché tre anni fa, parodia della distruzione da lui operata, il collezionista svizzero Uli Sigg distrusse la famosa Coca-Cola Urn di Ai, fotografato da Manuel Salvisberg per Fragments of History, e l’anno scorso durante una mostra a Miami un vaso Han ridipinto da Ai fu distrutto da un vandalo, con successiva condanna a diciotto mesi di carcere: fino a che punto l’artista è legittimato a distruggere perché il suo gesto è significante, mentre l’uomo comune deve solo osservare e contemplare? Il discrimine è nella percezione, che immette il primo gesto nella tradizione e costringe il secondo all’attualità; ma forse non basta.

Gigantesco nelle dimensioni e scandalistico nelle provocazioni, Ai Weiwei è e resta assolutamente cinese, e in questo essere cinese è mondiale: stare a casa, nella terra e nella cultura in cui si è nati, significa attraversarne i frammenti del passato e ricomporli per l’oggi. I confini si oltrepassano accettandoli e le diversità convivono solo se coesistono: l’ingresso di oggetti domestici (una poltrona in marmo nero in una foresta di alberi oppure un passeggino in un marmoreo prato d’erba alta) ricorda come gli imperatori costruivano l’immagine del potere mostrando oggetti di uso comune in materiali preziosi. Sdoppiarsi per guardare dall’altro punto di vista, sempre: un lampadario la cui montatura è costituita da telai di biciclette chiude la mostra, a unire memoria storica e cultura di massa in un abbraccio che illumina, bello e razionale.