Tutto è iniziato con una bronchite: il «tramite» che ha fatto incontrare Gianfranco Rosi e il medico Pietro Bartolo, che esercita a Lampedusa da circa 20 anni. Il regista di Sacro Gra era sull’isola a fare un sopralluogo per un film breve commissionato dall’Istituto Luce che raccontasse la tragedia dei migranti: «ma dopo due o tre settimane che ero lì – racconta – mi ero convinto che fosse una cosa impossibile da realizzare, non mi sentivo in grado di affrontare un tema così complesso». Ed è stato proprio il dottore di Lampedusa che ha visitato Rosi a cambiare il corso degli eventi, consegnandogli tutto il materiale che aveva raccolto in oltre una decade di assistenza medica a coloro che sbarcano sull’isola, e soprattutto alle persone soccorse in mezzo al mare. «Mi ha detto che era il mio dovere restare e fare il film», racconta ancora il regista. Questa è la genesi di Fuocoammare, che va oltre il progetto iniziale diventando un vero e proprio documentario. I primi mesi della permanenza di Rosi, però, sono segnati dall’assenza di sbarchi e dalla temporanea chiusura del centro di accoglienza e «smistamento» dei migranti, che da quel piccolo lembo di terra più vicino all’Africa che all’ Italia vengono mandati dopo pochi giorni in altre strutture sulla terraferma. «Così ho pensato di raccontare l’isola come non era mai stata vista – dice Rosi – la sua identità». L’inizio di un’impresa durata un anno e mezzo, e conclusasi poco più di un mese fa, quando il film era già stato selezionato per il Festival di Berlino: «l’ultima scena è stata girata il 13 gennaio, ed è quella in cui è proprio Piero Bartolo a parlare, che riporta al momento in cui mi ha convinto a fare il film. Che non finisce mai, ma è sempre un work in progress».

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Come ha scelto i personaggi lampedusani del film? 

Tutto è iniziato con l’intuizione che se volevo raccontare l’isola dovevo farlo attraverso dei bambini. Dopo solo un giorno o due di ricerche ho incontrato Samuele: c’è stato un innamoramento immediato e così ho cominciato a seguirlo. Non ho mai scritto nulla, nessuna scena, è tutto accaduto giocando insieme a lui. Col tempo mi sono reso conto che stavo filmando uno stato d’animo: il suo sparare a un nemico inventato e riappiccicarlo poi con lo scotch, il suo occhio pigro, la sua ansia, sono tutte cose che in qualche modo ci rispecchiano. Anche l’ingresso degli altri personaggi è avvenuto senza pianificazione: Pippo, il dj, perché mi appassionava il suo modo di mettere la musica e poi cantarla, e anche perché pensavo che la radio fosse la voce dell’isola. Ogni volta che ero da lui arrivava la chiamata di zia Maria per fare delle dediche, così sono stato a trovare anche lei. E attraverso Samuele ho conosciuto sua nonna e lo zio pescatore.

Come si è svolto invece il lavoro con i migranti? 

Quando è stato riaperto il centro di accoglienza mi hanno dato il permesso di girare lì, e poco dopo ho potuto anche imbarcarmi sulla nave militare che fa i salvataggi in mare. All’inizio c’era un grande imbarazzo da parte mia a riprendere i naufraghi, i trasbordi, a stare con la cinepresa in mezzo a gente che muore. Ma ho avuto il sostegno di tutti, che mi hanno convinto della mia importanza come testimone. È stato proprio il comandante a dirmi di scendere a filmare la stiva il giorno che ci siamo imbattuti nella tragedia, per renderne testimonianza al mondo: 49 morti, di cui nessuno ha parlato perché era ferragosto.

Cosa non funziona nel racconto che fanno i media di questa tragedia? 

Di solito viene narrata con le cifre, ma i numeri hanno un significato relativo. Per me era importante vedere gli occhi, i volti, gli individui.