Les nuits de Fourvière è il nome semplice e suggestivo di un festival di spettacolo che ha pochi eguali in Europa. È un festival urbano, dedicato in primo luogo agli abitanti di Lione, e ai turisti che affollano la città capoluogo del Rodano. Dura due mesi, giugno e luglio, e a differenza di altri luoghi illustri della scena (Avignone come Edimburgo), con le sue date e la varietà del programma, offre alla città un vero servizio. Un paio di settimane fa erano di scena Toni e Peppe Servillo, nei giorni scorsi i prodigiosi percussionisti del Kerala, Bartabas, ma a metà luglio ci sarà Elton John. Un mix da noi impensabile, perché tutti i generi(e i loro organizzatori) si tengono ben dentro i propri compartimenti stagni.

Una ricchezza davvero fuori dell’ordinario per la manifestazione è il sito archeologico galloromano su cui si svolge. La collina di Fourvière, oltre a una grandiosa e secolare basilica dedicata alla Madonna toponima, ospita un teatro antico di pietra, e subito a fianco un anfiteatro romano da tremila posti. Nel primo, l’Odeon da un migliaio di posti, trovano sede gli spettacoli più raccolti, nell’altro i concertoni e la danza su grande scala. Sotto l’anfiteatro maggiore sono stati ricavati i camerini, stabili e numerosi come in un grande teatro, e l’attrezzatura tecnica è di prim’ordine. Non c’è neanche il problema del parcheggio, perché al sito si accede dalla metropolitana di Lione Vecchia con comoda e rapida funicolare. Una volta issati sulle gradinate (i cuscini sono gratis, a differenza che da noi) le visioni prima dello spettacolo e del tramonto che si chiude alle 22, sono davvero mozzafiato: le meraviglie antiche e modernissime di Lione (che vanta «pezzi» contemporanei firmati Calatrava, Renzo Piano, Nouvel) moltiplicano il fascino di una città situata alla confluenza tra due fiumi, il Rodano e la Saona. E in lontananza ben nitido si vede il Monte Bianco con le sue vette innevate.

Ci sarebbero molte direttrici di fuga a questo punto per il pensiero dello spettatore, se non crescessero al primo buio i tamburi indiani arrivati dal Kerala. Roysten Abel è un artista che nel Kerala è nato, anche se la sua maturazione e la sua attività artistica si sono compiute a Nuova Dehli. Ha dato volti indiani a diversi testi di Shakespeare, e ha lavorato molto sul rapporto in teatro tra parola e musica. Ama mettere a confronto lo spessore culturale che l’India di oggi eredita dalla propria estensione e dalle proprie tradizioni, diversissime da stato a stato, da provincia a provincia, e da una confessione religiosa all’altra.

Abel aveva lavorato sui repertori tradizionali del Rajahstan, sia di quanti da lì sono emigrati nei ghetti urbani di Dehli ricchi solo delle proprie arti illusionistiche, sia di coloro che mantengono vive nella loro terra le radici ormai intrecciate tra hindu e sufi islamico. Ne abbiamo avuto assaggi consistenti in Europa, e anche in Italia, dove in una dozzina d’anni ha portato (tra Gibellina, Napoli e Villa Adriana a Tivoli) Shadipur Depot sulle prodigiose capacità illusionistiche di quei maghi, Manganyar’ seductions dove la musica e il canto scandiscono la vita di un falansterio ben temperato,e la malia avvolgente dei suoi 100 Sweet Charmers, gli incantatori di serpenti, senza rettili naturalmente, sostituiti ormai dalle reazioni emotive del pubblico.
Per la prima volta ora si confronta con la sua cultura originaria, quel Kerala verdeggiante e in parte cattolico, il cui suono è costituito principalmente di percussioni. Sui loro tamburi, quegli artisti mostrano, in assoluta semplicità, come dalla percussione di cuoio, legno, ottone possa articolarsi un discorso musicale, ricco di risvolti, assonanze e crescendo che costituiscono in questo caso la scenografia, fisica ma soprattutto interiore, di quanto si viene a raccontare, e preparare, in primo piano.

Ovvero nel titolo della performance, The Kitchen. Una cucina che non ha niente a che vedere con il proletariato inglese di Arnold Wesker, ma è il luogo di convivenza, confronto, scontri e sodalizio di una coppia, lui e lei. Di tutte quelle altalenanti «scene da un matrimonio» abbiamo profumi, sgarbi e dolcezze, occhiatacce e soddisfazioni. Ognuno dei due, Mandakini Goswami e Dilip Shankar (la donna è nella vita moglie del regista) gioca il suo ruolo dentro una coppia i cui rapporti stanno cambiando. E lungo i 75 minuti della durata, i due non si risparmiano gesti e smorfie «coniugali», mentre preparano il payasam, ricco dolce tradizionale, per il quale cuociono in due pentoloni 100 chili di riso con latte, zucchero, mandorle, uvetta e spezie varie.

Alle loro spalle la sezione di una grande gabbia ospita su tre piani i musicisti, che alle vicende della coppia danno drammaticità. Alla fine il connubio tra i due sposi sembra uscire rinsaldato, come a buon fine va quel dessert che verrà poi offerto agli spettatori. I quali gradiscono certo, anche se un’ombra pensosa/divertita resta di quella vita di coppia. Dal profumo dominante di cardamomo, naturalmente.