Trentatré anni sono passati dalla strage di Sabra e Shatila e da allora ogni anno si rinnova la catarsi di un ricordo che è anche un guardarsi indietro, verso la propria storia fatta di sconfitte e speranze, e un cercare in quel drammatico evento le ragioni per andare avanti alla ricerca di un futuro difficile da individuare. Oggi come allora, infatti, si cerca di negare al popolo di Palestina il presente; ieri con la mattanza messa in atto dai falangisti alleati di Israele e oggi attraverso l’assenza di diritti e vessazioni di ogni tipo, disperdendoli nel mondo per cancellarne la memoria e la possibilità di futuro.

«Mio nonno era un palestinese e abitava in Galilea, poi venne la guerra, bruciarono i nostri villaggi. Ci rifugiammo prima in Libano, poi a Damasco. Da allora la mia famiglia divenne palestinese rifugiata in Siria. Io sono nata a Yarmuk, non ho mai capito bene cosa ero: palestinese, ma anche siriana… Non potevo negare le mie origini, la Palestina, ma la Siria era il paese che aveva accolto la mia famiglia e io ci vivevo bene. Poi la Siria è esplosa, Yarmuk è diventato teatro di scontri e violenze e sono fuggita in Libano, divenendo così una palestinese rifugiata in Siria che vive da profuga in Libano. Mio figlio oggi non vuole restare qui, ha 23 anni e vuole raggiungere un suo zio in Norvegia. Cosa diventerà? Non sappiamo più cosa siamo!». Parole semplici e nello stesso tempo piene di disperazione, dette da Amal, una dei tantissimi profughi che sono arrivati in questi mesi dalla Siria. Fra questi sono circa 40mila quelli di origine palestinese. Uno spaccato della tragedia di un popolo. Per lei il massacro di Sabra e Chatila è solo un ricordo, uno dei tanti brutti ricordi.

Sono in tanti a voler scacciare l’ombra del massacro compiuto dalle falangi libanesi (cristiani maroniti). Lo fanno da sempre gli esecutori, che continuano a negare spudoratamente quel crimine. Lo fa anche una parte della popolazione palestinese, frustrata dalle troppe ingiustizie subite e schiacciata da un futuro inesistente. Ma quel ricordo, quella memoria, resta viva, come una ferita aperta. Una ferita che si palesa negli occhi dei familiari delle vittime, che ostinatamente chiedono giustizia per i loro cari. Donne e anziani che portano sulle spalle la responsabilità di traghettare la memoria del popolo palestinese alle nuove generazioni.

Sono loro, queste famiglie di Chatila, la vera ossatura del Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, fondato dal giornalista del manifesto Stefano Chiarini, insieme a pochi amici italiani, a Kassem Aina, di Beit Atfal Assomoud, una ong palestinese, e Talal Salman, intellettuale arabo e direttore del quotidiano libanese Assafir. Il Comitato in questi giorni è a Beirut per chiedere giustizia per i morti e diritti per i vivi, quei quattrocentomila palestinesi che nel Paese dei Cedri non si vedono riconosciuti neanche i diritti fondamentali.

Quest’anno insieme alla delegazione italiana, che vede la presenza anche di tre parlamentari del M5S giunti a Beirut per partecipare alle celebrazioni del massacro, c’è una vasta rappresentanza proveniente da altri paesi: Usa, Malesia, Singapore, Norvegia, Francia, Finlandia, Spagna, ma soprattutto tanti palestinesi che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania. Sono proprio i palestinesi di Gaza a denunciare con forza la condizione inumana a cui è condannata la popolazione che vive a Chatila, a Bourj al Barajne… nei campi in Libano. «Non possiamo restare zitti, questi campi sono cimiteri». Lo grida il coordinatore delle associazioni caritatevoli della Cisgiordania, «ieri ho visitato Chatila – prosegue – e ho provato vergogna. Una situazione intollerabile! Come si è arrivati a ciò? Come è stato possibile?». Nella risposta c’è tutta l’attuale crisi palestinese, una crisi di prospettiva, politica e sociale.

Si interroga sulle stesso tema il sindaco di Ghobeiry, la municipalità dove insiste il campo martire: «questo campo è un luogo inumano, inadatto alla vita delle persone. Lo sanno tutti, ma nessun vuole cambiare questa situazione. Da tempo denuncio questo e chiedo di poter intervenire drasticamente, e mi scontro contro un muro di gomma. I libanesi hanno paura che i palestinesi si stabilizzino qui, ma non sarà così, la loro patria resta la Palestina».

Ed è proprio la paura che sembra farla da padrona in questa parte del mondo. Paura dell’integralismo di Daesh (Isis), e del suo fanatismo criminale. Paura di ricadere in conflitti confessionali.

Ma anche paura di essere dimenticati, come rischiano di esserlo i rifugiati palestinesi in Libano: «Le crisi si sommano – ci spiega Salman Natour – prima i profughi dell’Iraq, ora quelli dalla Siria, nessuno sembra più volersi occupare dei palestinesi e dei diritti che gli vengono negati».
Ci spiegano cosa vuol dire vivere in un campo i rappresentanti del comitato popolare di Jalil, un piccolo campo vicino a Balbek: «tanti giovani ci dicono di voler partire, di voler prendere il mare per raggiungere l’Europa. Noi gli diciamo di no, di restare, gli raccontiamo delle morti nel Mediterraneo, dei respingimenti delle vostre polizie, gli spieghiamo che si deve restare qui per continuare a lottare affinché un giorno si possa ritornare in Palestina, ma poi ci accorgiamo che oltre le parole non abbiamo nulla da offrirgli e li lasciamo alle loro scelte. Senza un lavoro e senza la possibilità di avere un futuro cosa possiamo fare?».