La bicicletta arrivò negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Lo si vede anche in Butch Cassidy, western crepuscolare con Paul Newman e Robert Redford sulla parabola terminale del famoso fuorilegge e del suo sodale Sundance Kid: il protagonista a un certo punto scorrazza la bella Katharine Ross sul manubrio di una bici, accompagnato dalle soavi note di Raindrops keep fallin’ on my head. La scena marca il tramonto dell’epoca romantica dei pistoleri, l’arrivo della legge e della moderna società industriale, rappresentata per l’appunto dal destriero a pedali, che Newman non a caso introduce a Ross come «il futuro». L’apparente incongruenza della scena rimanda a un preciso momento storico, quando l’America fu colta da un’autentica frenesia a due ruote – non per caso, John Lake vinse il bronzo alle Olimpiadi del 1900 nello sprint su pista.

La diffusione dell’hobby ciclistico non si tradusse però in un movimento sportivo paragonabile a quello del Vecchio Continente, tanto è vero che i campionati del mondo furono organizzati (e dominati) dagli europei e solo nel 1974 varcarono l’Atlantico la prima volta, per corrersi in Canada. Proprio negli anni ’70, la bicicletta cambiò pelle e nacque la mountain bike. Ingegnosi appassionati californiani ruppero le regole di costruzione per ottenere veicoli da guidare su sterrati tortuosi e accidentati, che incrementavano le sollecitazioni meccaniche e necessitavano di attrezzature più robuste, freni più affidabili e accorgimenti che consentissero maggiore equilibrio. Così come era successo per il cricket (riadattato nel baseball) e per il rugby (modificato nel football americano), la trasformazione fu una nuova nascita. Gli americani si riappropriarono della bici, la sentirono finalmente come propria e il ciclismo si affermò come sport popolare.

È una singolare coincidenza che l’attesa per la gara maschile di mountain bike, nell’ultima giornata olimpica, sia vivacizzata dalla vicenda di Peter Sagan, il campione mondiale in carica della prova su strada, che fra la sorpresa generale ha snobbato la corsa in linea per riservare le sue energie al cross-country. Ci piace pensare che la scelta dipenda da quel tanto di spirito libertario e ribelle, presente nelle origini e nell’uso della mountain bike, che è perfettamente coerente con la personalità avventurosa, anticonvenzionale, quasi anarchica, dell’asso slovacco.

Nel panorama deprimente di automi programmati per vincere una corsa all’anno, di soldatini etero-diretti dagli onnipresenti auricolari e di sfingi imperturbabili che rilasciano insipide dichiarazioni alla stampa sotto dettatura del proprio direttore sportivo, Sagan è l’eccezione che accende la fantasia dei tifosi, la scheggia impazzita che scombina piani lungamente studiati a tavolino, la scintilla vitale che riumanizza un ambiente che ha costruito la sua epica sul rapporto inestricabile fra sport e vita. Ecco che gli si condonano gli eccessi imperdonabili (come quando pizzicò il sedere alla miss sul podio del Giro delle Fiandre, peraltro scusandosi prontamente, o il matrimonio oltre i limiti di guardia del kitsch) e ci si entusiasma per gli attacchi fulminanti fuori da ogni schema o per gli equilibrismi sulla ruota posteriore nel bel mezzo di una salita al Tour de France.

Sagan ha l’indole di uno pensa che i problemi della vita siano ben altri (come dimostrò sul podio iridato, ricordando a tutti il dramma dei profughi) e l’aria scanzonata di chi si dimentica di depilarsi le gambe prima di una gara importante o impara il veneto per burlarsi del compagno di squadra Matteo Tosatto. Dopo aver testato il percorso di Rio, ha detto: «Non disputo una gara di mtb da sette anni e nessuno può sapere cosa diavolo aspettarsi, ma sarà divertente». C’è da scommetterci.