«La mia giovinezza è trascorsa nell’incubo di essere uncinato o impiccato. Ho sempre avuto il terrore di una morte violenta. Ecco, quelle piazze vuote con i camion dei fascisti, quell’angoscia di morte, sono tra i motivi ispiratori di Salò». Roberto Chiesi dell’Archivio Pasolini di Bologna così commenta la stringente confessione pasoliniana: «il trasferimento delle atroci vicende descritte dal Divino Marchese dalla Francia del ‘700 al quadro storico della Repubblica di Salò in un film realizzato proprio nell’anno – 1975 – in cui ricorreva il trentesimo anniversario della Liberazione». E continua: «Ma soltanto in apparenza il progetto di Pasolini sembrava inserirsi in quella linea di film che rievocavano il crepuscolo delle dittature in Germania e Italia, come, per esempio, Gli ultimi giorni di Hitler (1973) di Ennio De Concini e Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani». Le cui matrici peraltro andavano ricercate nel suo teatro: in particolare nel claustrofobico Orgia e nella suite, poi anche cinematografica, germanico-nazista di Porcile (e Valerio Binasco nella sua attuale messa in scena quanto ha compreso questi attraversamenti). Dunque, Salò come film radicale, primo pannello di una nuova trilogia dedicata «alla morte» e succeduta alla felice, almeno commercialmente se non si legge «l’abiura», «trilogia della vita» – Ancora: incompreso per anni, scritto da altri e passato nelle sue mani si trasformò in un inedito «work in progress» con la sceneggiatura modificata sul set e dalle riprese; e poi misteriosi furti di bobine e ancora piattaforma per innovative e sperimentali strategie di marketing (autointerviste; conferenze mirate; e persino l’idea di una partita di calcio al Parco dei Principi di Parigi, suggerita forse a Pasolini dalla scoppola presa dalla sua troupe da parte di quella di Novecento… chissà?), finendo per cedere la sua carica eversiva alla macchina profetica del «Siamo tutti in pericolo», imbastita dallo stesso Pasolini e chiusa dal suo barbaro assassinio nella notte tra il primo e il 2 novembre di quarant’anni fa. Ora che quella data è proiettata per sempre «a futura memoria» di questo nostro sempre più mostruoso paese, Salò, restaurato dalla Cineteca di Bologna, CSC – Cineteca Nazionale e Alberto Grimaldi, che dell’ultima produzione pasoliniana fu il produttore, torna al Festival di Venezia (sezione classici, presentazione in Sala Volpi il 10 settembre, poi distribuzione in sala e uscita in dvd)a distanza di 28 anni dall’ultima proiezione in laguna. Era stato visto nella leggendaria retrospettiva voluta da Laura Betti. Ed oggi con la novità dell’inserzione dell’inedito prologo di Gideon Bachmann, il girato è conservato a Pordenone negli archivi di Cinemazero, meglio conosciuto come «L’intervista sotto l’albero» – già saggiata da Giuseppe Bertolucci nel suo Pasolini prossimo nostro e mostrata per la prima volta nel marzo scorso, in un programma pasoliniano curato da chi scrive, al Ca’ Foscari Short Film Festival – che dimostra come Pasolini con imbarazzante candore parla del film, ma sembra rivolgersi a noi, con quanta consapevolezza non sapremo mai, era un uomo ancora giovane e pieno di progetti: «Salò lo dimostra. È un testamento: tutte le istituzioni, gli elementi della vita umana contemporanea sono un tradimento dello spirito umano».