Si può considerare The Hunters, il primo libro di James Salter, un caso concreto di quel terribile amore per la guerra studiato da James Hillman in un saggio memorabile del 2004? Come sempre più spesso accade nell’editoria italiana, a questo bel romanzo, pubblicato nel 1956 e in parte riscritto nel 1997, è stato affibbiato un titolo del tutto arbitrario e insignificante, Per la gloria (traduzione di Katia Bagnoli, Guanda, pp. 281, euro 18,00). Una soluzione come Piloti di caccia sarebbe rimasta onorevolmente nell’area semantica dell’originale; probabilmente suonava un po’ troppo «guerresco». Questo piccolo dettaglio di bottega potrebbe essere addirittura l’indizio di un certo imbarazzo. Il libro non è certo truculento, e tanto meno apologetico, ma il punto di vista dell’autore può suonare quantomeno inattuale. Il 1956 è un anno di svolta per il capitano dell’aeronautica militare americana James Horowitz, che in occasione del suo esordio letterario prende il nom de plume di James Salter e abbandona l’esercito. Ha trentun anni, come il protagonista del suo romanzo, anche lui pilota di caccia, e nel 1952 ha combattuto in Corea, sul fiume Yalu, teatro di epiche battaglie contro i terribili MiG di fabbricazione sovietica. Ma non è da pensare che la trasformazione di un valoroso pilota di guerra (Horowitz/Salter abbatté anche un MiG quasi al termine del suo periodo al fronte) in scrittore sia interpretabile come il segno di una metamorfosi interiore, tantomeno di un pentimento. Se dal soldato è nato un romanziere, il secondo non è certo arrivato per espiare i peccati del primo.
Questo risulterebbe evidente alla semplice lettura del romanzo; a scansare gli equivoci ci pensa l’autore stesso in una breve prefazione. Byron, ricorda Salter, era fiero di trovare il nome dei suoi antenati tra coloro che invasero l’Inghilterra al seguito di Guglielmo il Conquistatore. E aggiunge: «guardandomi indietro, provo una fierezza non dissimile per aver volato e combattuto lungo il fiume Yalu». Questa fierezza espressa così sinceramente, io la trovo umanamente pura, e rispettabile. Non può essere confusa con un giudizio storico sulla guerra di Corea, o sulla vita militare. Questi sono giudizi di tipo collettivo, culturale. Il punto di vista di Salter invece è quello di chi fa un’opera letteraria, e un’opera letteraria è un discorso che riguarda sempre l’individuo, la sua reazione soggettiva all’esperienza e alla pressione del mondo. La solitudine del pilota in guerra e quella dello scrittore sono omologhe: come se entrambi si muovessero nella stessa identica atmosfera rarefatta. E se rinchiudendosi nella minuscola cabina di un caccia non ci si può portare dietro nulla oltre se stessi, lo stesso dovrebbe avvenire per chi si rinchiude nella scrittura di un romanzo. Qui sta la bravura artistica di Salter, che riesce a rendere credibile questa analogia dello scrittore e del pilota senza mai enunciarla, limitandosi semmai alla rassegna di certi fatti nudi e crudi, carichi di un significato umano talmente largo da suscitare un moto spontaneo di empatia («Ti infilavi dentro l’abitacolo angusto, fissavi le cinghie e ti collegavi al tuo velivolo. Il tettuccio di plexiglas si richiudeva sigillandoti, isolandoti dal mondo. In quel vuoto freddo portavi con te il tuo ossigeno, il respiro che ti manteneva in vita, in una bottiglia di acciaio (…) Eri isolato come un sommozzatore, solo che andavi verso l’alto, invece che in basso»).
Per lo scrittore e il suo protagonista, il capitano Cleve Connell, il bagaglio morale sembra davvero ridotto all’osso. Hanno rinunciato non solo a tutto il superfluo che ci lega ai nostri simili, ma anche – cosa molto più difficile – al superfluo che fa parte del carattere segreto di ognuno di noi. E così sono arrivati in un luogo dove valgono, in fin dei conti, le stesse cose che valevano per gli Achei sotto le mura di Troia: i limiti del coraggio e della paura, la lealtà, un acutissimo senso del fato, il rispetto del nemico che vive la stessa identica vita.
Non è solo un mondo di giovinezze falciate dalla morte improvvisa, questo; anche chi vive invecchia così velocemente da credere che il tempo gli sfugga come acqua fra le dita. Una delle tante cose che apprendiamo leggendo The Hunters è che a trentun anni un pilota di caccia è già incamminato sul viale del tramonto, con la vista periferica che si offusca sempre più e i riflessi che iniziano ad arrugginirsi. Saint-Exupéry, l’ultimo dei romantici, passava la vita a ingannarsi su questo punto e a ingannare i suoi superiori. Cleve Connell al contrario vive il suo rapporto con la verità come una religione, e sa bene che la capacità di non mentire a se stessi è preziosa come l’abilità a pilotare. Fin dalle prime pagine del romanzo, capiamo che il suo destino è in qualche modo segnato, le sue linee d’ombra sono state attraversate. Come l’aviatore irlandese della famosa poesia di Yeats, anche Cleve si è lasciato tutto alle spalle. Strano fenomeno: combattere su un caccia rende molto incerta l’idea di un futuro, e questo è ovvio; meno ovvio è il fatto che il passato si allontani e venga cancellato dalla coscienza come i serbatoi di riserva del carburante che vengono eliminati quando si avvicina un combattimento. Cleve vive nell’unico luogo in cui può vivere, quello che Yeats chiamava il punto di equilibrio fra «questa vita» e «questa morte». È un uomo coraggioso, ma il problema che ci racconta Salter, nessun coraggio lo può risolvere. È davvero una bella invenzione narrativa.
Cleve, che non ha combattuto nella guerra mondiale, arriva in Corea con una fama di ottimo pilota. Tutti si aspettano grandi cose da lui, e lui è in grado di farle. Comincia bene, abbattendo il suo primo MiG. Ma poi accade l’imponderabile: e il romanzo di Salter da questo punto in poi (a parte il finale edificante, che è la parte peggiore del libro) diventa una specie di parabola esistenzialista, a metà strada fra un’allegoria di Camus e Il deserto dei Tartari. Perché questo pilota così bravo si alza in volo quasi ogni giorno, raggiunge il teatro delle operazioni sul fiume Yalu, ma non incontra mai un nemico. E così, mentre un suo sottoposto, l’odioso Pell, ne abbatte uno dopo l’altro, lui rimane sempre allo stesso punto. Chissà se fra le letture degli ufficiali americani figurava a quei tempi Machiavelli: perché questa situazione ricorda per molti aspetti il grande dibattito rinascimentale sul ruolo della virtù e quello della fortuna nella riuscita di un’impresa. Cleve non ha nessuna colpa, ma si sente sprofondare nelle sabbie mobili delle aspettative deluse. Ricorre ossessivamente nei suoi pensieri e nei dialoghi con gli altri soldati un termine ambiguo, «occasione». L’occasione si presenta, o non si presenta, e a rigore non se ne potrebbe dire nulla d’altro. Questo ci dice la ragione, ma non tutto dipende dalla ragione. Può, l’occasione, essere forzata, costretta a manifestarsi? O questo è solo un residuo di pensiero magico? Ma allora, perché il senso di colpa ? Salter parla di un aviatore, di un pilota di caccia in guerra, come si potrebbe parlare di un attaccante comprato a caro prezzo da una grande squadra di calcio, che però non riesce mai a segnare. O ancora peggio, ne segna uno e poi basta, come succede a Cleve con i MiG russi. Lo dice in maniera esplicita: la differenza tra uno sportivo e un pilota di caccia dopo i trent’anni è che al primo si fiaccano le gambe, al secondo la vista.
Ma il pilota, lo sportivo, lo scrittore non sono che varianti di un’unica debolezza, di un’unica imperfezione, l’imperfezione e la debolezza dell’umano. La filosofia di Salter è così aderente alla contingenza e alla singolarità, che non accenna lontanamente a una soluzione del dilemma. Sarebbe una consolazione anche affermare che la fortuna premia sempre chi non se la merita, come vediamo accadere ai Pell di tutto il mondo e di tutti i tempi. Non è vero nemmeno questo. La verità è che l’occasione è come la Natura, regna sulle cose umane brandendo lo scettro dell’indifferenza. L’unica saggezza, l’unica pienezza del soldato solo nel cielo «contaminato da pericoli invisibili», dove vibra «la lama sottile della paura», sembra essere quella di andare oltre, come se non ci fosse più nemmeno uno scopo in quell’essere lì, nell’assurdo. Forse sono le occasioni che ci perdono, non noi a perdere loro. E qui sta la nostra ultima «fierezza».