C’è il sole nel cielo terso eppure sul Lido si respira già un’aria di autunno. Sarà il vento, fresco, quasi freddo, «è la bora» sorride la signora del bar.
«Tra poco se ne vanno» chiosa un tizio al tavolino dietro. Già, ce ne andiamo, «quelli della Mostra» come dicono qui, e dopo tanti anni le relazioni sono ancora complicate, tanto da essere un obiettivo nei discorsi del presidente Baratta sul futuro del Festival.
Col vento di fine estate ha cominciato a soffiare anche il «toto Leone». Chi vincerà? Le voci si rincorrono, qualcuno scrutando il viso del presidente Cuarón giura di averlo visto emozionarsi per Heart of a Dog, qualcun altro pensa che possano averlo conquistato le immagini di Beasts of No Nation. Per la stampa italiana (nemmeno tutta, nell’elenco mancano diversi quotidiani, compreso il nostro) consultata dal Daily della Mostra –affidato al mensile Ciak – il vincitore è Francofonia del «maestro» (ma è molto più bello dire «mastro» come suggerisce un amico) Sokurov, dissertazione sul potere dell’arte (o sull’arte del potere?) subito circondato dall’aura del capolavoro intoccabile tanto che per una volta anche il pubblico sceglie come la critica: deve essere lui il Leone! Io tifo Bellocchio, Anderson, Guadagnino, Kaufman, Gitai (ma non si è ancora visto Gaudino che passa oggi) quella manciata di film che in gara (poi fuori ce ne sono altri) hanno portato a livello alto questa Mostra.

Intanto ieri in concorso è arrivato di Atom Egoyan, cast di stelle, da Christopher Plummer a Martin Landau, per una storia che come suggerisce il titolo, «Ricorda» (in Italia lo ha già acquistato la Bim, l’uscita è prevista a inizio del prossimo anno) riguarda la memoria, nel caso in questione dolorosamente privata – il protagonista è un anziano malato di Alzheimer – e al tempo stesso collettiva, legata a un evento che ancora traumatizza la nostra contemporaneità. Stiamo parlando della seconda guerra mondiale, e più precisamente dell’Olocausto, i protagonisti sono due vecchietti, entrambi rinchiusi in una casa di riposo. Uno paralizzato (Landau) ha lavorato insieme a Wiesenthal dopo la guerra cercando i criminali nazisti fuggiti in America, spesso coperti da organizzazioni potenti che li hanno aiutati a rifarsi un volto e una nuova identità. Zev, che ha appena perduto l’amata moglie, è ebreo come Max, entrambi sono sopravvissuti ad Auschwitz e per questo è l’unico che può aiutarlo in quella sua caccia durata una vita. Solo Zev la cui famiglia è stata sterminata come la sua conosce il volto del comandante SS del campo e può riuscire nell’impresa.

Faticosa, certo, e piena di rischi vista l’età e la condizione instabile della sua mente, anche se a aiutarlo ci sono le «istruzioni» di Max, una preziosa e lunga lettera nella quale il compagno gli ricorda la sua vita, chi è, la promessa fatta alla moglie di vendicare i loro cari in punto di morte, gli obiettivi, l’itinerario. E la condizione dell’età è anche uno degli elementi su cui Egoyan costruisce la tensione narrativa del film, quasi un thriller hithcockiano di nascondimenti e fughe, clandestinità e escamotage di sopravvivenza in cui anche le cose più ovvie, come arrivare nella stanza dell’hotel, per la mente fragile del protagonista divengono complicatissime. Il viaggio è un crescendo di suspance verso la soluzione di un mistero di cui in apparenza sappiamo tutto, di cui Egoyan spiazza all’improvviso le attese con un rovesciamento radicale. Nel quale mutano i ruoli e le convenzioni che regolano questa «memoria» e la sua rimozione, un doppio salto nel vuoto (di memoria) che ne dimostra la fragilità.

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Zev – un nome che vuol dire ‘lupo’ – si sposta tra America e Canada, ritrova i suoi uomini ma nessuno è quello giusto. Uno (Ganz) ha combattuto in Africa, l’altro è morto, nella casa scassata il figlio conserva i cimeli nazisti con cura più nazista del padre, non esita a scatenare il cane contro un «ebreo del cazzo» tanto da costringerlo a sparare – mira fin troppo perfetta per la demenza senile. Ironico ma non troppo.
Nazisti dell’Illinois vi odio gridava il grande John Belushi, e questi nazisti l’uomo li scova piuttosto nel presente, in una realtà dalle armi facili dove alla vista di una pistola nella borsa dell’innocuo vecchietto l’agente della sicurezza con nostalgia gli dice che quella è stata anche la sua prima arma.

Nella memoria tutto si confonde, o riemerge distorto, Mendelssohn e Wagner, la voce innocente di una bambina riporta Zev ai suoi compiti lei che non sa neppure cosa significa la parola «nazista». A cosa serve questa vendetta da anziani che si deve fare in fretta sennò muoiono tutti? Non è più efficace costruire qualcosa che sia «Storia», che trasmetta alla collettività un’esperienza piuttosto che una lettura soggettiva? Egoyan compie quasi uno smascheramento della memoria, e della seduzione che la circonda, mostrandocene la natura fittizia, le modalità con cui si appropria della storia. È una tensione che ha attraversato i suoi film sin dagli inizi, negli schermi moltiplicati di visioni frammentarie del mondo, e di un’impossibile oggettività, fino alle sue incursioni storiche con cui ha dato voce al genocidio degli armeni, lui stesso di origini armene come la moglie, spesso protagonista dei suoi film, Arsinée Khanjian. Il male è sempre fuori di noi, nell’inganno della memoria è la tattica per non sentirsi responsabili. Senza fare spoiler (la sorpresa finale forse annunciata funziona comunque bene) l’ipocrisia di un’esistenza. E la sua ricostruzione della Storia, anzi no delle rischiosissime cattedrali della memoria, per essere vittima innocente. Libera da ogni giudizio morale, etico, storico. Più di qualcuno in sala si è arrabbiato, appunto.