Dal 1997 in poi, in Italia, l’opera di Samuel Beckett, Nobel per la letteratura nel 1969, è legata sempre più al nome di Gabriele Frasca. In quell’anno, infatti, il poeta, scrittore e saggista napoletano, traduceva, curava e introduceva per Einaudi il grande romanzo Watt. In seguito, quasi sempre adottando un «format» compositivo di questo tipo e sempre per lo stesso editore, Frasca licenziava, dell’opera beckettiana, le Poesie (1999), l’altro romanzo Murphy (2003) e la raccolta di prose brevi In nessun modo ancora (2007). Queste curatele seguivano un percorso di ricerca sull’autore irlandese aperto nel 1988 da un primo studio monografico, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett. Se a questo itinerario si aggiunge il recentissimo Lo spopolatoio. Beckett con Dante e Cantor (Edizioni d’if, pp. 394, euro 25), non si farà fatica a constatare l’esistenza di un vero e proprio progetto egemonico sull’opera dell’autore di Aspettando Godot.

Negli ultimi venticinque anni, Frasca ci ha «costretto» a leggere Beckett con la sua voce e secondo la sua linea interpretativa, una linea tesa a sottrarre l’irlandese alle letture che lo vedevano ora un mistico dell’essere, ora un novello profeta dell’alienazione, desiderosa, invece, di restituirlo a quelle macchine trasformative del mondo che hanno segnato e segnano le società a capitalismo avanzato: i media. Nella sua linea interpretativa Frasca si è sempre attenuto all’evidenza empirica: la radio inglese, la televisione tedesca, il cinema americano, hanno talmente «sussunto» Beckett nelle proprie strutture espressive (si pensi ai radiodrammi commissionati dalla Bbc, ai teleplays trasmessi dal Süddeutscher Rundfunk, a Film con Buster Keaton) da farne, più che uno scrittore, un autore intramediale.

Il rovello europeo

Ora, anche lì dove il suo lavoro nei media lo rende molto poco letterario e molto vicino al vissuto quotidiano, per poter presentare al lettore Lo spopolatoio si deve evitare, nei limiti del possibile, di parlare di Beckett. Se lo facessimo ridurremmo questo saggio a «beckettologia», una cosa per esperti o per i purtroppo pochi appassionati dell’autore. Non che il libro di Frasca non sia uno strumento per specialisti – l’intera opera dell’irlandese è scrutata in ogni suo dettaglio, biografico, storico, culturale, testuale, com’è testimoniato dalle fittissime 248 note che accompagnano il libro – ma è anche altro, e proprio nella misura in cui lo è, vale la pena discuterne.

Cos’è l’Europa? Se questa è la domanda che attraversa segretamente Lo spopolatoio e lo avvicina alle ansie più profonde della teoria sociale contemporanea, è anche vero che la risposta, nel momento cui è elaborata a partire dalla letteratura e non dall’osservazione diretta dei fenomeni più vistosamente sociali (lavoro, immigrazione, crisi economica), lo allontana dalla riflessione sociologica attuale. In questo mix di vicinanza ed estraneità alla sociologia rispetto a una comune preoccupazione, l’Europa, sta il fascino esercitato dallo Spopolatoio.

Pensare oggi alla comunità europea significa passare necessariamente attraverso la Germania, al punto che interrogarsi sulla prima porta inesorabilmente a riflettere sulla seconda. Un buon metodo di lavoro vuole che il presente sia valutato a partire dal passato.
Quando ancora esisteva, la Repubblica Federale Tedesca si fece protagonista di una grande operazione culturale europea attraverso Beckett: l’editore Suhrkamp tra il 1963 e il 1964 avviò un’edizione in tre lingue delle sue opere teatrali; l’emittente televisiva di Stoccarda, tra il 1966 e il 1985, gli commissionò la realizzazione di lavori come He, Joe e Was wo; lo Schlosstheater e lo Schiller-Theatre, il primo l’8 settembre 1953, il secondo nel 1965, misero in scena Waten auf Godot (Aspettando Godot).

Cosa voleva dire per la Germania federale puntare su un autore come Beckett? Per Frasca, «uno scrittore irlandese che risiedeva a Parigi, scriveva in inglese e in francese, si autotraduceva in entrambe le lingue, collaborando come se non bastasse anche alla versioni tedesche (…) e di cui si conosceva (…) solo la giovanile collaborazione con James Joyce, il tempestivo interesse per la Recherche di Proust e la frequentazione assidua della Commedia di Dante e delle opere di Goethe, significava prendere esplicitamente partito per la nascita di una nuova cultura sovranazionale, che aggirava (frequentandola) la frammentazione delle lingue, e che finiva in verità per riconoscersi in quello spazio letterario con cui il Medio Evo latino aveva dischiuso il concetto stesso di Europa».

Attraverso il «multilinguismo» di Beckett – Frasca gli preferirebbe un più sofisticato «equilinguismo» – la Germania cercava di praticare un’idea di Europa che fosse sovranazionale, contro tutti i particolarismi nazionalistici, e letteraria – anche in questo caso Frasca opterebbe per un più colto «spazio letterario» – contro tutte le determinati economiche giocate da quelle nazioni che, eventualmente, avessero voluto ergersi dominatrici tra le altre.

La scommessa tedesca

Lo scarto tra questa Germania polifonica e quella monolinguistica attuale ci sembra evidente: è come se, per usare un lessico caro a Deleuze e Guattari, dopo il Secondo conflitto mondiale la Germania, con l’investimento culturale fatto sull’opera di Beckett, si fosse de-territorializzata da una lingua materna oramai inutilizzabile a causa della catastrofe totalitaria di cui era responsabile, si fosse fatta contaminare da un sovranazionalismo multilinguistico per poi, a seguito della caduta del muro di Berlino, tornare a ri-territorializzarsi sul tedesco come unica lingua madre da imporre all’Europa.

Su questo punto la lezione politica che Lo spopolatoio ci permette di ricavare è radicale: se la lingua materna non fa che articolare continuamente il desiderio identitario di una nazione, allora, come Beckett, inventiamone un’altra che ci porti fuori da questo mortifero identitarismo e diventi «per ciò stesso un atto di resistenza». A dopo le strategie d’attacco.