Francesco morì nella notte fra il tre e il quattro ottobre del 1226 e fu subito portato nella chiesa di San Giorgio, poco fuori le mura di Assisi. Davanti alla modesta cassa di legno cominciarono a fiorire i miracoli; si trattava di una destinazione provvisoria in attesa che fosse pronta la definitiva dimora, la splendida doppia chiesa nella quale il corpo del santo fu traslato nel 1230, sotto l’altare della chiesa inferiore, in un luogo segreto.
I pellegrini da quel momento non poterono più avvicinarsi alla tomba; i miracoli si fecero rarissimi e cambiò il rapporto di devozione fra i fedeli e il santo, pronto ad accorrere in sogno o ad apparire o a intervenire ovunque fosse fervidamente pregato. Si moltiplicarono perciò le immagini (sostenute dal successo dell’Ordine); in molti casi le tavole costituiscono delle vere e proprie biografie figurate che a seconda dei tempi e dei contesti storici presentano differenti interpretazioni delle proposte di vita cristiana di Francesco.
Offre una ricca esemplificazione in tal senso l’ampia e bella mostra in corso alla Galleria dell’Accademia a Firenze (a cura di Angelo Tartuferi e Francesco D’Arelli, catalogo Giunti, fino all’11 ottobre). Distesa su due piani, essa non solo riunisce le più importanti tavole con storie della vita e i miracoli di Francesco, le icone di Margheritone, le formelle dipinte dell’armadio della sagrestia di Santa Croce di Taddeo Gaddi, ma lungo uno spazio di tempo e geografico assai estesi, dal tredicesimo al quindicesimo secolo, dall’Europa alle «Terre d’Asia», ha radunato manoscritti miniati, reliquiari, capitelli (alcuni provenienti da Gerusalemme), smalti, terrecotte, sculture, sigilli, paliotti ricamati, crocifissi scolpiti e dipinti, e poi quadri anche di grandi dimensioni, molti di pittori famosi.
Le opere sono bene esposte e accompagnate da chiare didascalie. Ottimo è il catalogo con schede esaurienti e splendide foto. Purtroppo, come si usa, è corposo e dunque anche pesante. Consiglio di acquistarlo in anticipo e di leggerlo con calma prima della visita, così come, altro consiglio pratico, di prenotare per telefono il biglietto (055-294883): la fila delle persone che desiderano entrare alla Galleria è unica e sempre lunga, perché la maggior parte dei visitatori vuole vedere il celebre David di Michelangelo.
Impossible descrivere in modo esauriente tutte le opere, varie e veramente attraenti. Mi limito perciò a qualche breve considerazione.
La mostra permette, occasione unica, di vedere da vicino la tavola Bardi, rappresentante San Francesco e venti storie della sua vita, recentemente attribuita a Coppo di Marcovaldo, che proviene dalla cappella Bardi della vicina chiesa di Santa Croce, dipinta a mio avviso intorno al 1240. Da un lato è un fatto positivo che la tavola si trovi abitualmente tutt’ora nel contesto per il quale era stata dipinta, dall’altro le doverose norme di sicurezza impediscono di fatto di poterla realmente osservare. Dunque il suo temporaneo trasferimento è un’eccellente occasione. Si tratta di una delle poche tavole che propone Francesco come modello di vita e non da ammirare nella sua santità irraggiungibile, in quanto insignito del miracolo delle stimmate. Per questa ragione incontriamo soggetti che non furono mai più rappresentati, come ad esempio Francesco che cura amorevolmente i lebbrosi, li lava e li consola, oppure che predica ai musulmani – Francesco, seguito da alcuni compagni, parla loro con grande fervore tenendo ben aperto un libro, certo il Vangelo, davanti a un uditorio convinto e attento, nel quale spicca il sultano in trono, protetto dalla guardia porta-spada. Negli affreschi della Basilica Superiore dipinti circa cinquant’anni dopo, l’episodio sarà rappresentato in tutt’altro modo. Francesco propone al sultano di buttarsi nel fuoco assieme ai suoi consiglieri. Chi non fosse stato bruciato sarebbe stato dichiarato il campione della vera fede e tutti avrebbero dovuto seguire quella del vincitore. Da una predica per convertire siamo passati a una sfida per vincere. Negli affreschi di Assisi il pubblico dei musulmani è sparito, e anche nella successiva iconografia – come ad esempio nella tavoletta di Taddeo Gaddi – non lo vedremo più, sostituito dai pavidi «sacerdoti» in fuga. Francesco non ha davanti a sé il popolo che voleva convertire ma solo i rappresentanti di una religione da umiliare.
Un’assoluta novità è poi la tavola di san Francesco proveniente dal museo diocesano di Bitonto, di un notevole pittore del 1260 circa, che in passato era stata completamente e più volte ridipinta (dal Cinquecento fino al diciannovesimo secolo) tanto da rendere il santo medievale assolutamente irriconoscibile. Le trasformazioni avevano però sempre rispettato il libro con una scritta che Francesco tiene davanti al petto; furono proprio i caratteri paleografici del tutto discordanti con l’apparente età del dipinto che suggerirono di compiere i primi sondaggi. Il restauro della tavola durato molti anni ha conservato la memoria delle varie trasformazioni; la misteriosa icona, circondata da tante leggende riguardo a committenza e provenienza, attende che le sia dedicato uno studio approfondito, perché si tratta di una straordinaria scoperta. Chi avrebbe mai detto che nel ventunesimo secolo sarebbe riemersa, nascosta dal suo pesante passato, un’opera tanto antica e raffinata, di un pittore che sembra avere dipinto questa sola opera?
Come si può notare il restauro della tavola di Bitonto ha conservato le tracce di cappucci di varia foggia e lunghezza che sono stati attribuiti a Francesco nei secoli, eco di una veemente polemica che riguardava le vere intenzioni del modo di vivere da parte di Francesco e che divideva aspramente i frati, fra coloro che volevano rimanere fedeli alla radicale volontà del santo e quelli che intendevano di poter vivere la Regola secondo una interpretazione assai più addolcita. Alle immagini si rivolgevano i frati: il cappuccio aguzzo e un saio con poca stoffa erano la prova a favore dei primi, un cappuccio ampio e arrotondato e un saio abbondante per le molte pieghe erano una prova per i secondi, i quali giunsero deliberatamente a ritagliare il cappuccio aguzzo delle tavole più antiche, restituito oggi da moderni restauri (si osservino in mostra, ad esempio, le tavole di Margaritone e bottega provenienti da Castiglion Fiorentino e da Terricciola Bracciolini).
Come ho accennato, l’esposizione è idealmente composta attingendo all’Occidente e all’Oriente. Proprio nella sezione afferente alle Terre d’Asia abbiamo la sorpresa di trovare un manoscritto dell’Inferno e del Purgatorio di Dante col commento di Iacopo della Lana, del secolo tredicesimo, aperto al foglio 16r, cioè all’inizio del canto settimo dell’Inferno, in cui al primo verso il demone-guardiano Pluto apostrofa Dante e Virgilio invocando Satana con l’enigmatico: «Papé Satàn, papé Satàn, aleppe!». La trascrizione latina «papae» dell’analoga parola greca, venne ritenuta dai commentatori antichi medievali un’interiezione di sorpresa. Invece fino a oggi non era stata trovata una spiegazione soddisfacente per «aleppe» che deriverebbe invece da elep/eleb, parola di origine mongola per designare il demonio (per saperne di più si legga l’esauriente scheda del catalogo a p. 358), parola che Dante potrebbe avere ascoltato come imprecazione da qualcuno reduce dall’Asia Minore. Dante, nato al tempo della seconda ondata dell’invasione mongola, avrebbe dunque tenuto presente la tradizione popolare delle origini infernali dei Tatari, chiamati abitualmente Tartari in quanto provenienti dal Tartaro, identificati con il popolo di Satana. Quindi il verso si potrebbe rendere: «Oh, Satana, oh Satana, demonio!».
Virgilio, che ha capito il significato delle parole di Pluto, rassicura Dante perché il guardiano infernale, per quanto potere abbia, non potrà impedire ai due viaggiatori di continuare il loro cammino. Assai meno a suo agio si era trovato invece l’ingenuo Francesco (Inferno XXVII, vv. 112-115 ) quando era venuto per portare in Paradiso l’anima di Guido da Montefeltro appena spirato, ed era stato sconfitto dal «nero cherubino». Di fronte ai cavilli dell’astuzia di Bonifacio VIII e al perfetto e beffardo argomentare del «loico» demonio che la smaschera («assolver non si può chi non si pente, / né pentére e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente», vv. 118-120) Francesco è muto. Tace non per umiliata sprovvedutezza, ma perché col suo silenzio, nelle intenzioni di Dante, rende più grave la colpa dei due peccatori: anche un santo a volte non può tentare alcuna difesa.