Folgorato da Papa Francesco e sedotto dal sottile brivido del palcoscenico, l’ateo Sandro Veronesi va a ingrossare la già fitta schiera di scrittori, giornalisti, magistrati (da Erri De Luca a Beppe Severgnini passando per Salvatore Cosentino e Francesco Piccolo, per non dire di Marco Travaglio) convertiti al teatro e si traveste da predicatore. Solo in scena, un leggio, niente luci, gli occhiali da mettere e levare unico appiglio mimetico, Veronesi ci racconta il «suo» Cristo, quello del Vangelo di Marco fuoruscito dalle pagine del suo libro (Non dirlo, edito da Bompiani), che dopo il debutto al festival di Spoleto ha iniziato un pellegrinaggio apostolico in giro per l’Italia. E che ora, dopo molte tappe, torna a casa, a Prato, al teatro Magnolfi (fino a domani), lo Stabile della Toscana che lo produce.

 
L’autore di Caos Calmo (Premio Strega 2006) sceglie Marco per la sua brevità, la sua compattezza. Un Vangelo scarno, senza fiorettature per un Cristo combattente per niente consolatorio, un parlar chiaro, scandito con metodo, coraggioso e carnale, che va dritto allo scopo e al cuore di chi deve provare a convertire («Ii romani di allora, gente rozza che mandava la gente nelle arene a farsi sbranare dai leoni per vincere la noia»).

 

 

Il Vangelo di Marco è il più antico, il più essenziale e dinamico, di certo il più rivoluzionario, tanto da poterlo leggere, azzarda Veronesi, alla stregua della sceneggiatura di un film di Quentin Tarantino. E come tale Veronesi lo affronta e lo incalza. Dispiegando la sintassi e il vocabolario del cinema: campi lunghi e primi piani, carrellate e panoramiche, dolly e soggettive, flash back e piani sequenza, le strategie compositive del miglior comunicatore di massa, il bagaglio tecnico del più eloquente creatore di spot. In questo affabulare per immaginazioni e visioni, come in una sorta di montaggio alternato che corre da un set all’altro, l’evangelico Veronesi si distanzia dai suoi illustri predecessori: dal rocambolesco rivelarsi altrove del Mistero Buffo di Dario Fo, come dal commovente proselitismo civico dei Dieci Comandamenti di Benigni.

 

 

Sandro Veronesi, con una dose di fanciullesca naiveté che alla fine ce lo rende simpatico, scopre la bontà e la necessità del palcoscenico come veicolo nobile di verità. E credibilità narrativa. Più dello schermo, più dello stesso libro. E qui, sulle nude tavole, si gioca tutte le sue carte di novello istrione, con piglio da consumato mattatore, esuberante e appassionato, don Chisciotte a Sancho Panza insieme. Visionario e picaresco. Fino a incrociare Leonard Cohen o David Foster Wallace. Come dire Cristo nostro contemporaneo.Sandro Veronesi, una possibile lettura di Cristo