Privare la messa in scena di Samson et Dalila di Saint-Saens del tratto voluttuoso, orientaleggiante e pompier, fra le principali cifre musicali dell’opera, è una scelta radicale gravida di rischi, che può generare un contrasto insanabile fra scene e contenuti profondi dell’opera. Questo sembrerebbe al primo impatto l’inconveniente principale dello spettacolo di Damiano Michieletto, in scena all’Opéra Bastille fino al 5 novembre.

Imperniato sull’imponente scena di Paolo Fantin, citazione fra Mies van der Rohe e Neutra resa minacciosa dalle luci di Alessandro Carletti, lo spettacolo propone un contrasto tutto contemporaneo fra oppressi e oppressori, in cui scolorano le identità dei popoli: «ho preferito far emergere il cuore problematico dell’opera – spiega Damiano Michieletto – il tema dell’oppressione e della schiavitù. Un popolo che celebra la propria forza, trionfando con la violenza su un altro popolo oppresso e su un uomo accecato, ma anche obbligando Dalila, vittima del Gran Sacerdote, a vendere il proprio amore». Si fondono in questo modo i due profili, quello dello scontro storico-politico e la storia d’amore fra i protagonisti in una visione in cui gli ebrei oppressi sono appena riconoscibili e i filistei sono genericamente dei violenti paramilitari contemporanei. Un colpo di teatro efficacissimo nel terzo atto permette a tutto il portato dell’esotismo di riemerge prepotentemente: il baccanale si trasforma in un ballo in maschera-orgia degno del Caligola di Tinto Brass, conferendo quindi un taglio grottesco e inedito all’intera scena.

Dalila ritrova allora le sue vesti da sacerdotessa, quasi una diva di quel cinema muto per cui Saint-Saens fece in tempo a scrivere una celebre colonna sonora. La donna rinuncia nel finale alle sue prerogative di vincitrice per aiutare Sansone nella sua ultima, immane, catartica impresa, la distruzione del tempio di Dagon, con una scena di notevole profilo spetttacolare. «Dalila – precisa Michieletto – scopre attraverso il gesto di Sansone, che nel mio spettacolo si taglia spontaneamente i capelli per amore, che in lui c’è qualcosa d’altro oltre alla potenza guerresca; da quel momento apre gli occhi sulla sua condizione e decide di stare dalla parte del vinto».

Michieletto ha saputo ottenere una volta di più la piena partecipazione delle masse corali e dei protagonisti: Anita Rachelishvili, una Dalila ammaliante e applauditissima ma anche il ruvido Gran Sacerdote di Egils Silins e il Sansone ben cantato di Alexandrs Antonenko, che rispetto a altre prove teatrali è sembrato più coinvolto e presente sulla scena. Molto ben equilibrato il rapporto fra buca e palcoscenico, grazie alla tenuta sicura del direttore Philippe Jordan, che imprime alla narrazione un passo spedito ma assicura alle voci un accompagnamento attento e mai soverchiante. Successo pienissimo con un vero trionfo per Dalila.