A Manuel Santos il Nobel della pace. Il Comitato del premio ha riconosciuto gli «sforzi risoluti» del presidente colombiano «per porre fine» al conflitto armato che dura da 52 anni e che ha provocato 220.000 morti e scomparsi e milioni di sfollati. Un riconoscimento attribuito nonostante il referendum del 2 ottobre, che ha bocciato gli accordi di pace conclusi all’Avana dopo quasi 4 anni di trattative ufficiali e altrettanti di colloqui esplorativi: con uno stretto margine, 50,23% il No, 49,76% il Si, e un’astensione del 63%. Per i moderati, uno stimolo ad andare avanti nonostante il parere delle urne. Per le sinistre e i movimenti, l’ennesima ambiguità di un’istituzione che, a differenza di quanto avvenuto in altre circostanze – per il Sudafrica, il Vietnam e il Medio Oriente – questa volta ha deciso per un’assegnazione esclusiva: senza, cioè, coinvolgere l’altra parte, decisiva per gli accordi di pace.

Il primo nome sarebbe stato quello di Rodrigo Londono Echeverri, alias Timoshenko, il leader delle Farc che ha firmato con Santos gli accordi di Cartagena e che ha condotto le trattative. Il secondo, quello del presidente cubano Raul Castro, il cui ruolo è stato determinante, sia nel raggiungimento degli accordi, sia nello «sminamento» delle logiche di guerra nel nuovo scenario multipolare. Oltre ai negoziati tra Santos e le Farc, l’Avana ha infatti ospitato altri tre eventi di portata storica: il vertice della Celac (la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici da cui restano fuori solo Stati uniti e Canada), durante il quale il continente è stato dichiarato Zona di pace; la riapertura delle relazioni con gli Usa; e lo storico abbraccio tra il papa Bergoglio e il patriarca di Mosca, Krill. Il terzo nome – il primo a detta del gruppo di intellettuali guidato dall’ex senatrice colombiana Piedad Cordoba, che lo ha proposto al Nobel per la Pace – avrebbe dovuto essere il presidente venezuelano Nicolas Maduro: non solo perché il Venezuela è stato ed è il primo «paese accompagnante» che sta facilitando le trattative anche con l’altra guerriglia storica, quella guevarista dell’Eln, ma perché i negoziati si sono messi in moto grazie alla testardaggine dello scomparso presidente venezuelano Hugo Chavez. Un percorso iniziato con la liberazione dei prigionieri di guerra delle Farc, nel 2008, in primo luogo la deputata Ingrid Betancourt. «Mi costa dirlo, ma il premio avrebbe dovuto essere assegnato anche alle Farc», ha dichiarato quest’ultima.

Il significato della decisione, però, è evidentemente politico. Le Farc e le sinistre di alternativa, che hanno appoggiato la rielezione di Santos per cavalcare la sua ambizione di passare da falco a colomba, chiedono una pace con giustizia sociale: possibile solo con un cambiamento strutturale che rimuova alla radice le cause del conflitto armato. Un quadro definito, dopo infinite mediazioni nazionali e internazionali, dai 7 punti principali dell’accordo, che prevedono una riforma agraria e la riapertura degli spazi di agibilità politica in sicurezza, per consentire il rientro della guerriglia nella vita politica.
Le destre nelle loro varie modulazioni, vogliono invece «la pace del sepolcro», che neutralizzi la guerriglia e lasci al loro destino le comunità contadine – le più colpite dalla guerra e dalla devastazione delle risorse da parti delle multinazionali – che hanno votato, non a caso, per il Si. Gli omicidi di leader sociali sono infatti in aumento, insieme al numero dei paramilitari con i quali l’ex presidente Uribe ha concluso accordi segreti per una nuova impunità. Impensabile, per l’establisment, ammettere che il socialismo – rideclinato dai governi progressisti della regione – è l’attore più credibile per dare contenuto alla parola «pace».

Santos e Uribe rappresentano due facce della stessa medaglia, il primo gli interessi della grande borghesia e del capitale internazionale, il secondo quelli di un’oligarchia più rancida e forse meno appetibile, ma sempre gradita al complesso militare industriale, deciso a riprendersi tutti gli spazi in America latina. Santos ha dichiarato che continuerà a perseguire la pace e ha dedicato il premio alle vittime e a tutti coloro che hanno contribuito alle trattative. Sa bene che, sia in caso di vittoria che di sconfitta del referendum – che non avrebbe avuto nessun obbligo di convocare – avrebbe vinto comunque.
La maggioranza del campo governativo, infatti, non si è spesa più di tanto in una campagna assunta invece in pieno dall’ex presidente Uribe, di cui è stato ministro della Difesa. Non per niente, le Farc avevano chiesto e continuano a chiedere la convocazione di un’assemblea costituente.

E ora Uribe torna con forza in gioco, per rinegoziare al ribasso gli accordi dell’Avana. Santos lo ha invitato a un incontro per «rilanciare» il dialogo. Con quali presupposti, non è difficile indovinare. Era stato, infatti, Uribe ad accettare i primi colloqui esplorativi con le Farc, stimolati dall’azione di Chavez. Subito, però, aveva imposto l’espulsione del Venezuela dalle mediazioni, volendo appunto imporre «la pace del sepolcro» alla guerriglia.
Il 31 ottobre scade il cessate il fuoco bilaterale prolungato da Santos. Timoshenko ha invitato i guerriglieri a rientrare negli accampamenti e ad aspettare «in zone sicure». «Il più grande riconoscimento a cui aspiriamo – ha detto il comandante – non è il Nobel, ma una pace vera».