Per quattro mesi non avevo tenuto in mano un libro, e già la sola idea di un libro, in cui si potessero vedere parole allineate, righe, pagine e fogli, di un libro in cui si potessero leggere, seguire, accogliere nel cervello pensieri diversi, nuovi, estranei, capaci di distrarre, aveva qualcosa di inebriante e al tempo stesso di stupefacente. Ipnotizzati i miei occhi fissavano la piccola gobba che il libro formava nella tasca, ardevano su quell’unico punto quasi invisibile, come se volessero forare il cappotto col loro fuoco. (…)

Un fulmine mi attraversò il pensiero: ruba questo libro! M’infilai il volume dietro la schiena, sotto i pantaloni, nel punto in cui erano trattenuti dalla cintura, e da lì pian piano verso i fianchi, per poterlo tenere mentre camminavo, con la mano militarmente tesa lungo la cucitura dei pantaloni. Si trattava adesso di far la prima prova. Mi allontanai un passo, due passi, tre passi. Funzionava. Era possibile tener fermo il libro mentre camminavo, bastava che premessi bene la mano sulla cintura.(…)

La prima occhiata fu una delusione e addirittura una specie di rabbia esasperata: questo libro rubato con così immenso pericolo, pregustato con così ardente speranza non era altro che un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite magistrali. Se non fossi stato rinchiuso, incarcerato, avrei scagliato il libro dalla finestra aperta nel primo impeto di rabbia, perché cosa dovevo, cosa potevo farmene di quell’assurdità? Da ragazzo, al ginnasio, come la maggior parte degli altri m’ero cimentato di quando in quando, per noia, davanti a una scacchiera. Ma a che mi serviva quella roba teorica? Non si può giocare a scacchi senza un compagno, e men che meno senza pezzi, senza scacchiera.

* * *

Nascosi il libro sotto il materasso e strappai la prima pagina. Poi cominciai a modellare, con le briciole risparmiate dalla mia pagnotta, i pezzi degli scacchi, il Re, la Regina, eccetera, in modo naturalmente approssimativo e ridicolo; dopo infiniti sforzi potei alla fine accingermi a ricostruire sul lenzuolo a quadri le posizioni raffigurate sul libro. Ma quando cercai di rifare l’intera partita, dapprima fu un fallimento completo con i miei ridicoli pezzi di mollica, di cui, per distinguerli, avevo scurito una metà con la polvere. Nei primi giorni mi sbagliavo di continuo; per cinque, dieci, venti volte dovetti ricominciare da capo sempre la stessa partita. Ma chi sulla terra disponeva di tanto tempo inutile e inutilizzato come me, lo schiavo del nulla, chi possedeva un’avidità ed una pazienza tanto smisurata?

Autor: Stefan Zweig Foto: Archiv S. Fischer Verlag
Autor: Stefan Zweig,[object Object],Foto: Archiv S. Fischer Verlag

Dopo sei giorni riuscivo già a terminare in modo impeccabile la partita, dopo un’altra settimana non avevo neanche più bisogno delle molliche sul lenzuolo per raffigurarmi le posizioni del libro. La trasposizione era riuscita in modo integrale: avevo proiettato la scacchiera con i suoi pezzi verso l’interno, e mediante le semplici formule riuscivo a padroneggiare di volta in volta la posizione, come a un musicista esperto basta una semplice occhiata alla partitura per sentire tutte le voci e la loro armonia. Dopo altri quindici giorni ero in grado, senza alcuna fatica, di rifare ogni partita del libro a memoria – o, come si dice in gergo specialistico, alla cieca – solo allora cominciai a capire quale immenso beneficio mi avesse arrecato il mio audace furto. Questo periodo felice, poiché giocavo le centocinquanta partite del libro sistematicamente ogni giorno, durò circa due mesi e mezzo o tre. Poi, inaspettatamente, arrivai ad un punto morto.

All’improvviso ero di nuovo di fronte al nulla. Infatti, dopo aver giocato ogni partita venti o trenta volte, essa perdeva il fascino della novità, della sorpresa, la sua virtù prima così eccitante, così suggestiva si esauriva. Che senso aveva ripetere ancora e ancora delle partite che conoscevo a memoria da un pezzo, mossa per mossa? Dovevo escogitare, al posto delle vecchie, nuove partite. Dovevo cercare di giocare con me stesso, o meglio contro me stesso.
Ora non so fino a che punto lei abbia riflettuto sulla situazione psicologica che viene a crearsi in questo gioco fra i giochi. Ma già la riflessione più superficiale dovrebbe bastare a rendere evidente che negli scacchi, in quanto gioco mentale puro, indipendente dal caso, voler giocare contro se stessi è logicamente un’assurdità.

* * *

L’attrattiva degli scacchi si basa in fondo solo sul fatto che la sua strategia si svolge in modo diverso in due cervelli diversi, che in questa guerra intellettuale il nero non conosce di volta in volta le manovre del bianco e cerca continuamente di indovinarle e d’intralciarle, mentre da parte sua il bianco si sforza di superare e parare le mire segrete del nero. Se bianco e nero formano una sola, stessa persona, si crea la situazione assurda per cui uno stesso cervello deve sapere e insieme non sapere una certa cosa, e funzionando come bianco deve a comando dimenticare completamente ciò che un minuto prima, come nero, aveva voluto e previsto. Un simile doppio pensiero presuppone in realtà una totale scissione della coscienza, una capacità d’accendere e spegnere a piacere la funzione intellettuale come in un apparecchio meccanico; voler giocare contro se stesso, costituisce quindi negli scacchi un paradosso, come voler saltare sopra la propria ombra.

Insomma, a farla breve, per mesi ho cercato di realizzare quest’assurdità nella mia disperazione. ma non avevo altra scelta che questo controsenso, per non soccombere alla pura follia o ad un completo marasma spirituale. Ero costretto dalla mia terribile situazione a tentare per lo meno questa scissione fra un io nero ed un io bianco, per non essere soffocato dallo spaventevole nulla che mi circondava.

Questa nuova occupazione richiedeva una così assoluta tensione cerebrale, da rendere impossibile nello stesso momento qualunque autocontrollo. Ho già accennato che a mio avviso è già di per sé un nonsenso voler giocare a scacchi contro se stesso; ma perfino quest’assurdità avrebbe pur sempre una minima possibilità con una vera scacchiera davanti agli occhi, perché la scacchiera con la sua concretezza permette in fondo una certa distanza, un’estrinsecazione materiale.

Davanti ad una vera scacchiera con veri pezzi si possono intercalare pause di riflessione, si può sedere in modo puramente fisico ora da una parte, ora dall’altra del tavolo e in tal modo considerare la situazione ora dal punto di vista del nero, ora da quello del bianco. Ma essendo costretto, com’ero io, a proiettare queste battaglie contro me stesso o, se vuole, con me stesso in uno spazio immaginario, dovevo per forza ritenere chiaramente nella mia coscienza la situazione esistente di volta in volta sulle sessantaquattro case, e calcolare inoltre non solo la situazione del momento, ma anche le possibili mosse ulteriori dei due partner, e quindi – so come suona assurdo tutto ciò – immaginarmi sempre quattro o cinque mosse in anticipo per ognuno dei miei io, il bianco e il nero, moltiplicate per due, per tre, no, per sei, per otto, per dodici.

* * *

Dovevo , giocando nello spazio astratto della fantasia, calcolare in anticipo come giocatore bianco quattro o cinque mosse e altrettante come giocatore nero, per combinare in anticipo tutte le situazioni che potevano svilupparsi, in certo modo con due cervelli, col cervello bianco e col cervello nero.
Ma nemmeno quest’autoscissione era l’aspetto più pericoloso nel mio astruso esperimento: piuttosto, escogitando partite per conto mio, mi mancò ad un tratto la terra sotto i piedi e caddi nel vuoto. La semplice ripetizione delle partite dei maestri, in cui m’ero esercitato nelle settimane precedenti, in fondo non era stato altro che un lavoro di riproduzione, la pura ricapitolazione di una data materia e in quanto tale non più impegnativa che se avessi imparato a memoria delle poesie o dei paragrafi del codice; era un’attività limitata, disciplinata, e quindi un ottimo esercizio mentale. Le due partite che giocavo al mattino, le due che provavo il pomeriggio, rappresentavano un compito ben definito, che sbrigavo senza aggiungervi alcuna eccitazione; costituivano per me un’occupazione normale, e inoltre, quando sbagliavo nello svolgimento di una partita o non sapevo andare avanti, avevo sempre un punto di riferimento nel libro.

Poiché non avevo nient’altro che questo gioco insensato contro me stesso, il mio furore, la mia sete di vendetta si riversarono fanaticamente in questo gioco. Qualcosa in me voleva aver ragione, ed avevo solo quest’altro io dentro di me da poter combattere; così mi esasperavo, durante il gioco, in un’eccitazione quasi maniacale.

All’inizio riflettevo ancora con calma e ponderazione, inserivo delle pause fra l’una e l’altra partita, per ristorarmi della fatica; ma a poco a poco i miei nervi irritati non mi permisero più di aspettare. Appena il mio io bianco aveva fatto una mossa, il mio io nero si gettava febbrilmente all’attacco; appena una partita era terminata, subito sfidavo me stesso alla prossima, perché ogni volta uno dei due io-giocatori era vinto dall’altro e chiedeva la rivincita.

Non potrò mai dire neppure con approssimazione quante partite abbia giocato contro me stesso negli ultimi mesi nella mia cella a causa di questa folle insaziabilità – forse mille, forse di più. Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad Alfieri e pedoni e Torre e Re, a e b e c e matto ed arrocco, con tutto il mio essere e il mio sentimento ero spinto verso il quadrato della scacchiera. Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica, che a poco a poco penetrò non solo le ore in cui ero sveglio, ma anche il mio sonno. Potevo pensare solo agli scacchi, solo in termini di mosse di scacchi, problemi di scacchi; qualche volta mi svegliavo con la fronte madida e capivo d’aver inconsciamente continuato a giocare anche nel sonno, e quando sognavo esseri umani, me li raffiguravo soltanto nei movimenti dell’Alfiere, della Torre, nell’avanti e indietro della mossa del Cavallo.

Anche quando venivo chiamato per l’interrogatorio, non potevo più pensare nitidamente alla mia responsabilità; ho la sensazione d’essermi espresso, nelle ultime udienze, in modo piuttosto confuso, perché gli inquisitori talvolta si guardavano sconcertati. Ma in realtà, mentre interrogavano e si consultavano, nella mia sciagurata bramosia attendevo solo d’esser ricondotto in cella, per continuare il gioco, il mio folle gioco, un’altra partita e un’altra e un’altra. Ogni interruzione mi disturbava; perfino il quarto d’ora in cui il guardiano rassettava la mia prigione, i due minuti in cui mi portava il cibo, erano un tormento per la mia febbrile impazienza; talvolta, la sera, la ciotola del pranzo era ancora intatta, durante il gioco avevo dimenticato di mangiare.

* * *

L’unica sensazione fisica era una sete terribile; doveva essere la febbre di quel continuo pensare e giocare; vuotavo la bottiglia in due sorsi e tormentavo il guardiano per averne un’altra, ma subito dopo mi sentivo la lingua già asciutta in bocca. Infine la mia eccitazione aumentava durante il gioco – e non facevo altro dalla mattina alla sera – a tal punto, che non riuscivo più a star seduto tranquillo un momento; mentre meditavo le partite, andavo ininterrottamente su e giù, sempre più in fretta e più in fretta e più in fretta su e giù, su e giù, e sempre più eccitato a mano a mano che si avvicinava il momento decisivo della partita; la brama di aver la meglio, di vincere, di vincere me stesso, diventava a poco a poco una specie di furore, tremavo d’impazienza, perché ogni volta uno degli io-giocatori dentro di me era troppo lento per l’altro. L’uno incalzava l’altro; per quanto ciò possa parerle ridicolo, cominciavo a insultare me stesso – «Più svelto, più svelto!» o «Avanti, avanti!» quando uno dei miei io non replicava abbastanza rapidamente all’altro.

Com’è naturale, oggi mi sembra del tutto evidente che la mia condizione era una pura forma patologica di sovreccitazione spirituale, per la quale non trovo altro nome che questo, finora sconosciuto alla medicina: un avvelenamento da scacchi.

Infine quest’ossessione monomaniaca cominciò ad attaccare non solo il mio cervello, ma anche il mio corpo. Dimagrivo, dormivo sonni inquieti e turbati, ogni volta al risveglio dovevo fare uno sforzo particolare per sollevare le palpebre di piombo; talvolta mi sentivo così debole, che, quando afferravo un bicchiere, lo portavo solo con fatica alle labbra, tanto mi tremavano le mani; ma appena il gioco incominciava, una forza selvaggia m’invadeva: correvo su e giù coi pugni stretti, e come attraverso una rossa nebbia sentivo ogni tanto la mia voce, che gridava a se stessa, rauca e cattiva, «Scacco» o «Matto!»

* * *

Come questa tremenda, questa indescrivibile situazione sia giunta alla crisi, neanch’io riesco a ricostruirlo. Tutto quel che so, è che una mattina mi svegliai, e fu un risveglio diverso dal solito. Il mio corpo era come staccato da me, riposavo dolcemente, con un senso di benessere. una stanchezza densa e buona, quale non avevo più conosciuto da mesi, gravava sulle mie palpebre, gravava su di esse così calda e benefica che sulle prime non potei decidermi ad aprire gli occhi. Per diversi minuti giacqui sveglio a godermi ancora quel pesante stordimento, quel tiepido crogiolarmi coi sensi voluttuosamente assopiti. D’un tratto mi parve di sentire dietro di me delle voci, vive voci umane, che dicevano parole, e lei non può immaginare il mio entusiasmo, perché da mesi, da quasi un anno non avevo sentito altre parole che quelle dure, aspre e cattive dal banco dei giudici.

«Tu sogni», mi dissi. «Sogni! Non aprire assolutamente gli occhi! Lascia che duri ancora, questo sogno, altrimenti vedrai di nuovo intorno a te la maledetta cella, la sedia e il lavandino e la tappezzeria con lo stesso, eterno disegno. Tu sogni – continua a sognare!»

Pablo Picasso, oil on canvas, 1913-1914. Card Player

Ma la curiosità ebbe il sopravvento. Lento e cauto aprii gli occhi. E, meraviglia: era un’altra stanza, quella in cui mi trovavo, una stanza più larga, più spaziosa della cella in albergo. Una finestra senza sbarre lasciava entrare liberamente la luce e la vista degli alberi, alberi verdi ondeggianti al vento invece dell’immobile muro spartifuoco, bianche e lisce splendevano le pareti, bianco e alto mi sovrastava il soffitto – davvero giacevo in un letto nuovo, estraneo, e veramente, non era un sogno, dietro di me sussurravano lievi delle voci umane.

Senza volerlo, nella mia sorpresa, dovetti fare un movimento brusco, perché subito udii dietro di me un passo che si avvicinava. Una donna stava arrivando con agile andatura, una donna con una cuffia bianca sui capelli, un’infermiera, una suora. Un brivido di felicità mi colse: da un anno non vedevo una donna. Fissai la divina apparizione, e dev’essere stato uno sguardo selvaggio, estatico, perché colei che si avvicinava mi calmò immediatamente con un «Tranquillo! Resti tranquillo!» Ma io ascoltavo soltanto la sua voce – era proprio un essere umano che parlava? Davvero esisteva ancora sulla terra una persona che non m’inquisiva, non mi tormentava? E per giunta – inconcepibile miracolo! – una morbida, calda, quasi tenera voce di donna.

Fissavo avidamente la sua bocca, perché in quell’anno d’inferno era diventato per me inverosimile che un essere umano parlasse ad un altro con bontà. Ella mi sorrise – sì, sorrise, c’erano ancora persone che sapevano sorridere con benevolenza – poi portò il dito alle labbra in un gesto di ammonimento e passò oltre, leggera.

Ma io non potevo obbedire al suo ordine. Non mi ero ancora saziato di guardare il miracolo. Con impeto cercai di sollevarmi sul letto per seguirla con lo sguardo, per seguire il miracolo di un essere umano capace di bontà. Ma quando volli sostenermi al bordo del letto, non ci riuscii. Dove un tempo era la mia mano destra, dita e polso, sentivo qualcosa di estraneo, un rigonfiamento spesso, grosso, bianco, senza dubbio una larga fasciatura. Dapprima fissai senza capire quella cosa bianca, spessa, estranea sulla mia mano, poi cominciai lentamente a comprendere dov’ero e a riflettere su che cosa potesse essermi capitato. Dovevano avermi ferito, oppure m’ero fatto male da solo alla mano. Mi trovavo in un ospedale.

A mezzogiorno venne il medico, un signore anziano e gentile. Conosceva il nome della mia famiglia e menzionò con tanto rispetto mio zio, il medico personale dell’imperatore, che subito ebbi la sensazione di essere nelle sue grazie. In seguito mi fece una quantità di domande, soprattutto una che mi stupì – se ero un matematico o un chimico. dissi di no.

«Strano, — mormorò. — Nel delirio lei gridava sempre delle formule così curiose: c3, c4. Nessuno di noi ci si raccapezzava».
M’informai su che cosa mi fosse accaduto. Egli sorrise in modo singolare.

«Niente di serio. Un’irritazione acuta dei nervi, — ed aggiunse piano, dopo essersi guardato intorno con prudenza: — In fondo molto comprensibile. Dal 13 marzo, non è vero? — Annuii. — Non c’è da meravigliarsi, con quel metodo, — mormorò. — Lei non è il primo. Ma non si preoccupi. Dal modo con cui mi sussurrò queste parole tranquillizzanti, e dal suo sguardo benevolo, capii che presso di lui ero ben protetto».

* * *

Due giorni dopo il buon dottore mi spiegò con una certa franchezza che cosa era accaduto. La guardia mi aveva sentito gridare forte nella mia cella e sulle prime aveva creduto che fosse entrato qualcuno e che litigasse con me. Ma appena s’era mostrato sulla porta, mi ero gettato su di lui e l’avevo aggredito con grida selvagge, che suonavano come: «Muovi un’altra volta, mascalzone, vigliacco!» Avevo cercato di afferrarlo alla gola e alla fine l’avevo colpito con tanta furia, che aveva dovuto chiamare aiuto. Quando poi, nel mio stato di frenesia, m’avevano portato alla visita medica, all’improvviso m’ero sciolto, m’ero slanciato verso la finestra del corridoio, avevo fracassato il vetro e così m’ero tagliato la mano – può vedere ancora qui la profonda cicatrice.

Le prime notti all’ospedale le avevo trascorse in una specie di febbre cerebrale, ma ora, a suo avviso, il mio apparato sensorio s’era del tutto rischiarato.
«Certo, — aggiunse a bassa voce, — preferirei non dirlo a quei signori, altrimenti, alla fine, la riportano un’altra volta laggiù. Si fidi di me, farò del mio meglio». Che cosa abbia detto di me il soccorrevole medico ai miei carnefici, non l’ho mai saputo. Ad ogni modo ottenne quel che voleva: il mio rilascio. Può essere che mi abbia dichiarato irresponsabile, o forse nel frattempo ero diventato poco importante per la Gestapo, perché Hitler aveva già occupato la Boemia, e quindi il caso dell’Austria per lui era sbrigato. Così mi restò solo da firmare l’impegno di lasciare la patria entro quindici giorni, e questi quindici giorni furono tanto riempiti dalle mille formalità che oggigiorno sono richieste all’ex cittadino del mondo per un viaggio all’estero – documenti militari, polizia, tasse, passaporto, visto, certificato sanitario – che non ebbi il tempo di meditare molto sul passato.