È banale dire che lo sapevamo. Ma sì, lo sapevamo. La mazzette ai dirigenti Fifa per l’assegnazione dei Mondiali e la gestione dei diritti tv sono un’altra faccia – per esempio – dei 1.200 morti nei cantieri degli stadi in Qatar per il 2022 (erano 400 morti lo scorso anno, le previsioni finali sono già adesso spaventose).

Anzi, la doppietta infernale Russia 2018-Qatar 2022 per i prossimi Campionati sembrava fatta apposta perché calassero otto anni di ordine e silenzio sui traffici consumati da decenni alle spalle dell’alegria do povo, la gioia del popolo. I brasiliani chiamavano così Garrincha, ma lo si può dire in generale del calcio come rituale sociale.

Quando arrivano i Mondiali si scopre sempre che ogni paese – anche il più sperduto – di Garrincha ne ha almeno uno, e che l’allegria è una merce fragile e complicata.

Si può fare a meno della Fifa? Se lo chiese l’anno scorso il New York Times durante la Coppa in Brasile, con un titolo giustamente rimasto nella memoria (Throw Fifa out of the game). «Organizzatevi tra nazioni», diceva l’articolo scritto evidentemente sul filo del paradosso, e ci sarà pure qualche studente del Mit capace di programmare un software per stabilire gironi e incontri. Ora, il fatto che l’inchiesta che ha inguaiato l’organizzazione del calcio mondiale sia opera di una donna afroamericana – la ministra della Giustizia Usa Loretta Lynch – aggiungerebbe un elemento di riflessione in più.

Gli americani non amano i riti barocchi, levantini e sanguinari coi quali organizziamo da queste parti la nostra allegria? Può darsi. Ma qualunque tifoso di calcio con un po’ di testa sulle spalle si sarà trovato una volta o l’altra a chiedersi come fare a meno dell’Uefa e della Figc, oppure, con lo stesso spirito, del presidente della propria squadra del cuore.

È Maradona contro Blatter. È Maradona contro Ferlaino. Santa Maradona comunque, consunta bandiera del popolo o di quel che ne resta.

[do action=”quote” autore=”Zdenek Zeman”]«A mio parere, la grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco».[/do]

«La popolarità del calcio dipende dal fatto che in ogni piazza del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con il pallone tra i piedi» invece lo ha detto Zeman. O forse era Pasolini. Nessuno ha mai detto: «Grazie alla popolarità del calcio, in ogni ufficio della Fifa c’è un funzionario che prende mazzette mentre quel bambino gioca e si diverte eccetera»? No, non credo. E come aforisma non sarebbe neppure da buttar via.

Ricordiamo in questi giorni il trentennale dell’Heysel. I 39 morti in uno stadio fatiscente e disorganizzato, risultato di una somma di gesti individuali e casuali, un cumulo di responsabilità delle quali non si verrà mai veramente a capo. Meno che per una cosa: perché fu giocata la partita? Lo ha ripetuto ieri Boniek, che quella sera era in campo: «Ci dissero che non giocare avrebbe provocato là fuori la guerra civile».

L’Heysel fu uno dei grandi spartiacque tra le epoche del calcio, la nostra così gretta e quella antica e circonfusa di nostalgia. La «guerra civile» è metafora della dinamica da ostaggi che allunga l’ombra di quella tragedia su tutto il calcio moderno: bisogna continuare a giocare, lo spettacolo non si può fermare, altrimenti chissà che succede.

Nacque anche con l’Heysel una posizione certamente di sinistra nei confronti dello sport-spettacolo, ancor più ancora radicale e apocalittica di quella maradoniana guerrigliera: fermate tutto, non si giochi, non si sia complici più di nulla. Eccetera.

Una posizione rimasta per lo più nel repertorio dell’indignazione, almeno fin quando Tsipras ha provato a fermare il campionato in Grecia lo scorso febbraio, dopo le violenze nel derby di Atene. Provvedimento a tempo indeterminato, ma il campionato è poi ripreso a porte chiuse, e lentamente tornato alla «normalità» fino alla sua conclusione. Ora, il calcio greco è da sempre il parco dei divertimenti degli «oligarchi» che gestiscono le squadre e blandiscono gli ultrà. E per inciso, mentre l’Uefa minaccia di escludere le squadre greche dalle competizioni europee, il presidente dell’Olympiakos che ha vinto il campionato – l’armatore Marinakis – è attualmente sotto inchiesta per calcioscommesse e partite truccate. Ma anche questa è una storia di cui sappiamo tutto. Perché per molti versi è anche la nostra storia.

Ma chi è veramente ostaggio, oggi, e di chi?

Se i tifosi sono ostaggio della Fifa, dell’Uefa, degli sponsor e dei presidenti, di chi consuma i propri affari sulla pelle della passione allora non c’è altro da fare: bisogna fermare tutto, chiudere, farla finita, tornare a guardare giocare i ragazzini, le vecchie glorie, gli scapoli e gli ammogliati.

Oppure – l’idea è di certo più perversa ma forse anche meno lontana dal vero: se fossero la Fifa, l’Uefa, gli sponsor e i presidenti ostaggio della passione dei tifosi?

Se volessimo insomma considerare l’allegria collettiva come un diritto, e non come una specie di vizio di cui si può anche fare a meno?

Allora la via d’uscita sarebbe tutta da inventare. Ma ce n’è tante di cose da inventare, al mondo.