Si fa presto a definire «cretinaggini» le denunce di Amnesty international sulle violenze, a volte solo botte altre volte più simili a torture, compiute da polizia su migranti e i rifugiati, uomini e donne, minori e adulti, che sbarcano nel sistema hotspot italiano. «Cretinaggini», è così che il capo del Dipartimento immigrazioni e libertà civili del Viminale Mario Morcone ha definito ieri le storie contenute nel rapporto di Amnesty, dicendosi al contempo «sconcertato».

Redatto a Londra dopo quattro missioni in centri d’accoglienza di 13 città e 174 interviste a migranti, il dossier è già finito sulle prime pagine dei principali giornali europei. Sono denunce sconvolgenti, in effetti, che riferiscono di un trattamento generalmente brutale e violento riservato dagli agenti in divisa ai migranti, in maggioranza sudanesi e eritrei, con la giustificazione di dover procedere all’identificazione in tempi brevi e prendere le impronte.

I racconti anche di ragazzini di 16 anni come Ishaq, «Castro», Ali parlano di calci, pugni, manganellate, mani e dita storte. Ma soprattutto dell’uso delle scariche elettriche dei Taser, le pistole che si vedono nei serial polizieschi americani e che secondo la stessa Amnesty hanno già provocato nel mondo quasi 900 morti.

Djoka, sedicenne del Darfur sbarcato a giugno sulle coste siciliane nel tentativo di raggiungere un fratello in Francia, ha detto di essere stato portato per tre giorni nella «stanza dell’elettricità». Alcuni hanno descritto le torture con botte ai genitali, strane sedie di metallo dov’erano obbligati a sedersi per essere pestati. Persino una donna che aveva partorito sul barcone e perdeva ancora sangue è stata schiaffeggiata più volte.

Episodi analoghi vengono descritti a Bari come a Crotone, a Torino come a Ventimiglia. E quasi sempre – a parte nell’hotspot di Taranto – i luoghi dove avvenivano – o meglio avvengono – queste pratiche a dir poco brutali sono stazioni di polizia accanto ad aeroporti o stazioni ferroviarie. Oppure direttamente durante i trasferimenti, sugli autobus, per strada sui cofani delle auto di pattuglia. Luoghi dunque per lo più lontani da occhi indiscreti di funzionari dell’Easo, di Frontex o delle agenzie dell’Onu come l’Unhcr.

Luoghi di sostanziale impunità visto che in Italia, non solo non esiste una legge contro la tortura, ma neanche un codice di identificazione degli uomini in divisa.
Ieri, accanto alle dichiarazioni sconcertate e sconcertanti del prefetto Morcone, anche l’ex capo della protezione civile ora al vertice della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha smentito «categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia in fase di identificazione che di rimpatrio». Gabrielli fa notare che le «presunte testimonianze» raccolte «in forma anonima» si riferiscono a migranti che «non risiedevano in alcun hotspot», dove esiste una supervisione sulle procedure di un team della Commissione europea.

La stessa portavoce Commissione europea, Natasha Bertaud da Bruxelles, ha dichiarato di non essere a conoscenza di gravi violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani e ha comunque assicurato che le accuse «verranno prese in seria considerazione». «Lavoreremo con le autorità italiane per chiarire la situazione», ha promesso.

Amnesty sostiene di aver scritto due volte al ministro dell’Interno Angelino Alfano durante la scrittura del rapporto, chiedendo informazioni sull’uso della forza nel rilevamento di impronte, e di non aver mai ricevuto risposta. L’ong si rammarica poi di non aver potuto interloquire con il prefetto Giovanni Pinto, che al Viminale dirige la polizia di frontiera e addetta all’immigrazione. Il segretario del sindacato di polizia della Cgil, Daniele Tissone, fa notare che le pistole Taser non sono in dotazione alla polizia italiana. Dimentica di specificare che dal 2014 sono state introdotte «in via sperimentale». Evidentemente la sperimentazione ha bisogno di cavie.