L’operaio è dentro un turbo generatore, in maglietta. Ha i guanti alle mani e un casco di sicurezza in testa. Potrebbe essere una foto di un’altra epoca, quando Genova faceva squadra nel «triangolo industriale», e sarebbe, allora, uno delle decine di migliaia di immagini sul lavoro operaio conservate nell’archivio storico Ansaldo. Ma il giovane operaio ha tutto l’avambraccio destro tatuato con segni tribali: è una foto di oggi. Un tempo avresti trovato un piccolo cuore trafitto, un’ancora inchiostrata, sui bicipiti. Non è solo una lettura sociologica di un fotogramma. Quella foto di Uliano Lucas racconta invece, e semplicemente, che gli operai esistono ancora.

Nella Genova della crisi e del lavoro che oggi c’è, domani forse, tra un mese chissà. Centoventi anni fa si costituiva a nella città della Lanterna la Camera del Lavoro, prodromo alla conquista, quattro anni dopo, del diritto alla rappresentanza sindacale: quel sindacato che troppo spesso, oggi, appare solo come uno strumento di estrema autodifesa, superato da una sospetta modernità che assomiglia molto, invece, alla ferina protervia del capitalismo delle origini. Per tornare a parlare di lavoro è necessario, innanzitutto, bucare quella cappa di silenzio mediatico che ha espulso il lavoro, o meglio, tutti i lavori possibili dal sistema dell’informazione. Anche un libro fotografico può aiutare, restituendo consistenza e visibilità a volti, gesti, sguardi, carne viva di gente in una città del Nord che ha visto smantellati, uno dopo l’altro, tutti gli anelli delle catene delle filiere produttive, e che cerca disperatamente di appoggiarsi, per sopravvivere, alla ricerca tecnologica, o a un presente di cultura e turismo che dà qualche segnale incoraggiante e intermittente, ma non basterà, da solo.

[object Object]

A metà degli anni ’90 le fotografie genovesi di Uliano Lucas, maestro dello scatto sociale, colsero lo schianto e l’avvitarsi di una città sotto i primi colpi di maglio della globalizzazione: ne scaturì un libro, Lavoro, lavori a Genova in cui furono perni decisivi Franco Sartori e Luca Borzani, allora direttore del Centro Ligure di Storia Sociale. Oggi Borzani presiede la fondazione di Palazzo Ducale, motore culturale della città, ma è tornato a scrivere di lavoro per questo nuovo testo, assieme a lvano Bosco, segretario della Camera del lavoro. Le splendide foto di Uliano Lucas, in una manciata di scatti che tutti assieme costituiscono il nuovo reportage, Il tempo dei lavori (Il Canneto editore, pp.114, euro 15), riescono a cartografare e far emergere l’invisibilità coatta.

Nella città che fu porta del Mediterraneo e oggi senza più bussole produttive, Lucas coglie i frammenti taglienti di uno specchio sociale enorme, e infranto in mille pezzi che non riescono più a saldarsi in un’unica narrazione. Non più «il lavoro», ma «i lavori», al plurale, tanti quante sono le occasioni di mille raffinate forme di precarietà.

Certo, ci sono ancora gli operai della siderurgia, spesso con i tratti da migranti, ci sono i movimentatori di merci del porto, un tempo accusati dalla borghesia rentier della città di essere fonte di ogni male, nella loro disperata rivendicazione di dignità, ma la camera di Lucas coglie anche il coacervo di contraddizioni innescate dalla globalizzazione selvaggia. Ecco la possibile via di rinascita attraverso gli assetti tecnologicamente più avanzati, colta negli scatti all’Istituto Italiano di Tecnologia o nei laboratori del Gaslini, ma a far da contraltare le foto di badanti, dog sitter, fattorini a cottimo, rifornitori di scaffali da centro commerciale. I lavori, appunto, non più «il» lavoro.