A ricordarlo oggi, quando il solo nome di Haiti è sinonimo di miseria e arretratezza, pare incredibile, ma alla vigilia della Rivoluzione francese quella che allora si chiamava Sainte-Domingue era la colonia più ricca del mondo: tanto da far dire ai governanti inglesi che strapparla alla Francia avrebbe compensato con gli interessi la recente perdita del Nord America. Ci cresceva di tutto ma soprattutto caffè e zucchero, merci preziose. A coltivarle erano gli schiavi che arrivavano in catene dall’Africa sulle navi negriere, a botte di decine di migliaia l’anno.

Lo schiavismo dal volto umano è esistito solo nelle bugie dei piantatori e nelle fantasie nostalgiche di Margaret Mitchell, ma in alcuni Paesi era più atroce che in altri e in nessuno come a Sainte-Domingue. Riempire il culo dei neri con polvere da sparo e poi farli esplodere era un giocondo e abituale passatempo, seppellirli fino al collo con ferite aperte per attrarre insetti famelici una punizione consueta per sgarri anche minimi. Proprio l’altissimo tasso di mortalità tra gli schiavi rendeva l’importazione fiorente: 40mila ogni anno nella fase immediatamente precedente il 1789, quando Sainte-Domingue, in piena espansione, era quasi la sola voce positiva dell’economia francese.
La popolazione era divisa in tre colori e quattro classi sociali. I bianchi, 40mila o poco meno, si dividevano in una minoranza di Grands Blancs, i proprietari delle piantagioni, e Petits Blancs, in parte artigiani ma soprattutto sottoproletariato urbano, poveri ma superiori ai neri e alla gens de couleur, i meticci, per il colore della pelle. I 27mila mulatti, gerarchicamente segmentati in 64 gradazioni di colore a seconda della percentuale di sangue nero nelle vene, erano spesso molto più ricchi dei Petits Blancs ma del tutto privi di diritti civili e politici.
In fondo alla piramide c’erano quasi 500mila schiavi neri per i quali la parola «diritti» non aveva senso alcuno. I piccoli bianchi erano in conflitto con i mulatti: ne invidiavano la ricchezza. I proprietari avevano ingaggiato un braccio di ferro con la madre patria: l’imposizione di commerciare in esclusiva con la Francia gli andava stretta. L’Inghilterra aspettava l’occasione per impadronirsi dell’isola del tesoro. La Spagna, padrona dell’altra metà dell’isola chiamata da Colombo Hispaniola, covava la stessa bramosia.

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Il nome indio
La Rivoluzione in Francia fece esplodere tutte le tensioni insieme. Nella notte del 22 agosto 1791 gli schiavi insorsero mettendo a ferro e fuoco l’isola. Non era la prima sollevazione di schiavi nella storia: sarebbe stata l’unica a vincere. Dopo quattordici anni di guerra prima civile, poi con la Spagna, l’Inghilterra e infine con la stessa Francia, Sainte-Domingue, tornata al nome indio di Haiti, sarebbe diventata la prima colonia del Terzo Mondo a conquistare l’indipendenza.
La storia della rivoluzione degli schiavi e del suo comandante, Toussaint Louverture, è stata scritta molte volte, a partire da metà del XIX secolo. Lo scrittore americano Madison Smartt Bell la ha raccontata in una magnifica trilogia, edita in Italia da Alet, forse il principale romanzo storico moderno. Due anni fa persino la televisione francese ha dedicato a Toussaint una mini serie e nel 2009 Wyclef Jean, ex Fugees, nato ad Haiti, ha reinventato il condottiero nero, chiamandolo Toussaint St. Jean, in uno dei suoi cd migliori: From the Hut, To the Projects, To the Mansion. I nuovi e numerosi studi hanno messo in evidenza aspetti in precedenza poco considerati: l’importanza della rivolta spontanea nel Sud del Paese, il ruolo del culto voodoo (che Toussaint, cattolico, aveva proibito). Però, a 77 anni dalla sua pubblicazione, resta insuperato, per la profondità dell’analisi, l’acume delle intuizioni e la capacità di affrontare nodi modernissimi, I giacobini neri, il saggio storico dedicato a Toussaint e alla rivoluzione haitiana da C.L.R. James, ripubblicato ora da DeriveApprodi.
James, nero di Trinidad, giornalista, storico marxista, comunista anti stalinista, parla di Haiti ma guarda a tutte le rivolte anticoloniali che andavano allora maturando. Scopre e anticipa i nodi, le contraddizioni e i rischi delle rivoluzioni in un Terzo Mondo visto dall’interno e con appassionata partecipazione, senza cedere al terzomondismo che avrebbe affascinato e confuso la mente di tanti epigoni nei decenni successivi.

James guarda alle lotte di liberazione nazionale prossime venture senza mai mettere la linea del colore o del riscatto nazionale (figurarsi poi quella dell’identità religiosa) in rilievo rispetto alla connotazione di classe. Il rischio che le due linee di forza rivoluzionaria, invece che in sinergia, entrino in tensione e contraddizione non gli sfugge. Fa parte della grandezza di Toussaint l’averle sapute, sino a un certo punto, coniugare. Per James quel che conta non è il colore, ma la collocazione sociale.
I pochi neri liberi (com’era peraltro lo stesso Toussaint) fecero puntualmente fronte comune con i mulatti e non con la massa degli schiavi, che nella geografia sociale di Sainte-Domingue erano la vera forza lavoro. Le stesse continue alleanze trasversali furono dettate sempre e solo dall’interesse economico delle diverse fasce sociali, che s’identificavano essenzialmente, ma non sempre, con il colore. Che tuttavia, in una società razzista, restava determinante, proprio come, più tardi, la componente di indipendentismo nazionale nelle colonie. Il principale errore di Toussaint fu, secondo James, proprio l’aver perso di vista, nell’ultima fase della sua dittatura, l’importanza di questo elemento, sacrificato alla necessità di coniugare la liberazione degli schiavi con la ricostruzione economica del Paese, affidata in parte ai bianchi.

Il centro della narrazione è giocoforza Toussaint Louverture, il genio politico e militare che sconfisse i mulatti, gli spagnoli e gli inglesi, conquistò tutta l’isola, diede forma rivoluzionaria a quella che probabilmente sarebbe stata senza di lui solo una rivolta di schiavi, costruì la base per un Paese libero che, se il generale nero non fosse stato sconfitto, sarebbe stato molto diverso da quel che è poi diventata Haiti.
L’ammirazione di James per «lo Spartaco nero» è incondizionata, ma le critiche restano puntuali e acuminate. Toussaint era consapevole di aver bisogno dei bianchi. Non li amava, né li odiava. Li temeva e non se ne fidava, ma sapeva che senza il loro bagaglio culturale e senza la loro esperienza Sainte-Domingue sarebbe stata perduta. Credeva nella Francia rivoluzionaria, e non si accorse per tempo che la breve parentesi giacobina e più ancora sanculotta si era chiusa. Quando, ormai padrone incontrastato di tutta Sainte-Domingue, per difendere i bianchi tornati a gestire le piantagioni, senza più schiavismo ma con una disciplina rigida, condannò a morte il più brillante e popolare dei suoi generali, il nipote Moise, Toussaint decretò la propria rovina. Quando poco dopo, a fronte dell’invasione francese, non ebbe la prontezza di riconoscere nella Francia il nemico, e dunque esitò, evitò di schierarsi per l’indipendenza e cercò fino all’ultimo di mantenere aperto un dialogo, si condannò alla deportazione in Europa e alla prigionia nella tetra e gelida prigione di Fort-de-Joux, dove morì dopo pochi mesi nel 1803.

Errori fatali

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Toussaint sbagliò, ma per lungimiranza non per miopia. Dessalines, il generale feroce col corpo coperto dai segni delle frustate ricevute da schiavo, era l’uomo adatto per portare a compimento la rivoluzione. Sbaragliò i francesi, proclamò l’indipendenza del Paese a cui restituì il suo antico nome, si proclamò imperatore, ordinò (su spinta della civile Gran Bretagna) lo sterminio di tutti i bianchi.
Ma Dessalines non poteva ricostruire Haiti, né riportarla all’antica ricchezza. Toussaint avrebbe potuto, ma per provarci aveva dovuto lasciare spazio, pur senza fidarsene, a quelli che miravano solo a ripristinare lo schiavismo e aveva perso così la connessione con il suo popolo in armi. Il suo dilemma, riconosce James, era tragico e non dissimile da quelli con cui si trovò alle prese Lenin dopo la presa del potere e nei giorni di Kronstadt.

Con tutte le loro astuzie e i frequenti cambi di campo, né Toussaint, né Dessalines, né Moise avrebbero mai accettato il ritorno dello schiavismo a cui mirava Bonaparte. Ma per Dessalines l’obiettivo non andava oltre, mentre Toussaint era davvero un uomo della Rivoluzione francese, intesa nella sua accezione più giacobina, e Moise sarebbe forse stato l’unico capace di andare oltre e intendere la Rivoluzione degli schiavi come sociale e consapevolmente di classe. Anche per questo sacrificarlo fu, secondo James, lo sbaglio più imperdonabile e dalle conseguenze disastrose di Toussaint.

I giacobini neri è un magnifico libro di storia e, insieme, un attualissimo saggio di teoria politica rivoluzionaria. Oggi, e probabilmente per molto tempo ancora, è impossibile leggerlo senza ritrovarsi negli occhi l’immagine di quella «storica» manifestazione parigina seguita alla stragi jihadiste nella redazione e nel supermercato. Alla testa c’era un manipolo di uomini di potere non meno cinici e rapaci di quelli con cui dovette vedersela Toussaint, pronti a esaltare i valori della Rivoluzione francese contrabbandandoli come «universali», ma solo dopo averli depurati dall’ombra sgraziata e scomoda dei sanculotti e persino dello stesso Robespierre.

Dall’altra parte, un Terzo Mondo, ormai spesso interno al Primo, sbandato e smarrito, infiammato da un’oscura identità religiosa, incapace di riconoscere le radici sociali della propria disperazione. E intorno il coro unanime e bugiardo dei pensatori di corte, indignato e furibondo (giustamente) con gli jihadisti, ma al fondo contentissimo di doversi misurare con i tagliagole della Shari’ah invece che con una rivolta di classe come, con tutti i suoi errori, fu quella di Toussaint e del suo esercito rivoluzionario di schiavi ribelli.