Meglio tardi che mai. Si potrebbe dire a proposito del Leone d’oro alla carriera assegnato quest’anno a Salvatore Sciarrino. Non si sa bene che cosa si aspettasse a decidere nei pressi della Biennale Musica. C’era il problema di un compositore italiano non vetusto (69 anni), attivissimo, presente nei circoli della musica d’oggi sia nelle grandi istituzioni sia negli appuntamenti minimi e familiari, quindi in diretta concorrenza con i vari direttori artistici (italiani) che si sono succeduti alla guida della rassegna, a loro volta compositori? Appena un po’ più giovani ma collocati nello stesso campo di battaglia? Speriamo di no. In ogni caso nell’ottobre 2016, il giorno 8 per l’esattezza, questo compositore di assoluta singolarità, di assoluto radicalismo e anticonformismo pur in un operare artigianale, serio e serioso, con riferimenti arcaici, avrà finalmente il riconoscimento veneziano.

Artita extra codici, Sciarrino, uno dei pochi di qualità superiore che si possa mettere nel mazzo dei sovvertitori, come Feldman, come Cage, come l’Evangelisti del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, come Scelsi. Uno dei grandi irregolari. Chissà che queste doti non gli vengano dal fatto di essere stato autodidatta. Cosa rara nell’ambiente. Eppure la sua erudizione, non solo musicale, è vastissima. Eppure la sua musica fatta di silenzi e di esitazioni e di suoni persi è stata accostata al madrigalismo e magari a certi antichi salmi monastici.

Tutto vero. Ma ascoltate Studi per l’intonazione del mare, una non-sinfonia, un non-poema sinfonico per cento sax, cento flauti, quattro sax solisti e quattro flauti solisti più una voce maschile di «contraltino» oppure Luci mie traditrici, il più seducente ed estremo dei suoi non-melodrammi ispirato alla fosca vicenda di Gesualdo da Venosa, e dite se non è questo un musicista che sta nelle zone limite dell’invenzione e dell’uso del sapere musicale. Avanguardia è parola proibita ormai? Va bene, perché Sciarrino è talmente avanguardia da lasciare dietro di sé ogni classificazione di territorialità.

I registri degli strumenti  sono un ricordo. I flauti e gli archi, quando non appaiono con radi rintocchi, emettono soffi inudibili o laceranti stridori (elegantissimi, poeticissimi, liricissimi). Le voci. Ecco, le voci. Sciarrino è uno dei pochissimi tra i contemporanei che non mostri il tallone d’Achille dell’uso delle voci. O del canto, se vogliamo. Schönberg nel Pierrot lunaire sembrava aver risolto il problema brillantemente, poi si dedicò nelle opere tarde a studiatissime tradizionali afflizioni vocalistiche. Una pratica dei contemporanei, ben poco sensibili al desiderio di scoprire la sintonia col tempo, del tutto derivata dal canto accademico semplicemente privato dei centri tonali. Poche eccezioni: vengono in mente Cage (Solos for voice), Scelsi (Canti del capricorno), Cathy Berberian «emancipatrice» dello stesso Berio con Sequenza III, Glass (Einstein on the Beach). Il «canto sfinito» mescolato al «parlato stupefatto» di Sciarrino è un’eccezione luminosa.

Quest’anno a Venezia c’è il 60° Festival Internazionale di Musica Contemporanea. Il quinto ideato da Ivan Fedele. Per la serata Sciarrino suonerà la London Sinfonietta diretta da Marco Angius. E l’autore premiato col Leone d’oro porterà appunto lavori per voce e strumenti. Uno inedito, commissionato dalla Biennale, si intitola Immaginare il deserto. Altro azzardo di questa edizione il Leone d’argento a Ryo Murakami, un sofisticato ex techno e house. Poi una novità dell’eterea immensa Kaija Saariaho, gli americani semi-pop Bang On A Can All-Stars, altri americani della «new generation» scovati dal pianista Emanuele Arciuli. E squisitezze, tentativi, classici del 20° secolo, forse banalità per dieci giorni. Ogni anno se ne sente il bisogno.