Per discutere se il sogno sia un autoinganno o risponda a una parte antichissima di noi stessi, non c’è bisogno di scomodare la ricchissima letteratura filosofica a riguardo, né Cartesio quindi, né la svolta psicoanalitica seppure sia grazie a quest’ultima che molte scritture novecentesche hanno assunto nei confronti del sogno un atteggiamento più indulgente e articolato, che racconta una soggettività porosa, sia in sonno che in veglia.

In questa breve premessa si inserisce anche un piccolo libro scritto da Massimo Filippi e appena pubblicato per le edizioni Ortica, Sento dunque sogno. Frammenti di liberazione animale (pp. 78, euro 9). Il testo si compone di due scritti: il primo è una raccolta di sogni mai sognati da Theodor W. Adorno, il secondo è una riflessione sul concetto di corpo a partire da Jean-Luc Nancy. Sembrano slegati ma non lo sono affatto. Prendendo spunto da ciò che il filosofo francesce Jacques Derrida suggerisce intorno a Il sogno di Benjamin a proposito della connessione tra teoria critica e decostruzione, Filippi elegge il territorio smarginato del sogno come luogo di incontro tra Adorno e Nancy ma soprattutto con gli animali.

L’interesse per il sogno è certo composita: da un lato vi è la curiosità di chi come Filippi insegna neurologia, dall’altro di chi si occupa di questione animale da un punto di vista filosofico e politico. La frontiera su cui gioca l’autore è transdisciplinare e immaginifica, là «dove una sterminata moltitudine si affaccenda inoperosamente per continuare a farci, disfarci e rifarci». In questo dondolio inoperoso schiuso dal sogno, in questo cascare uguale e obliquo che avvicina alla morte e alla nascita, l’autore scorge infatti uno spazio di libertà che traghetta l’immaginario di ciascuno e ciascuna verso un’eccedenza di realtà.

Tuttavia, perché il sogno per esaminare la questione animale? Non è una domanda peregrina visto che sui sogni con tema animale si possono dire, e sono state dette, molte cose mentre sui sogni degli animali non si può dire quasi niente senza correre il rischio di antropizzarli o sovrainterpretarli. Secondo Filippi il sogno ha in sé qualcosa di concettualmente dirompente, si situa cioè in una terra di nessuno capace di sottrarsi alla presa della biopolitica e in cui i corpi restano impermeabili al disciplinamento, partecipa a uno stato di eccezione in cui rientrano accelerazioni e contrazioni – di tempo, di spazio, di relazione. Ed è qui che vi è l’apertura verso gli animali, lambendo cioè l’ipotesi secondo cui la liberazione passa anche per lo sconfinamento, per l’inaddomesticato che prende sostanza nei sogni. Secondo Filippi, non sogniamo infatti perché pensiamo bensì perché sentiamo.

Il primo scritto che si intitola «Protocolli perduti» è composto da alcuni sogni datati dal febbraio 1948 all’agosto 1970. Le date sarebbero piuttosto trascurabili se non fosse che immaginare Adorno sognatore diviene tessitura fantastica e colloquiale con l’attività del sognare a cui il filosofo francofortese, dal 1934 al 1969 – l’anno della sua morte – aveva davvero dedicato appunti meticolosi che grazie a sua moglie Gretel sono stati poi trascritti (disponibili anche in traduzione italiana nel volume I miei sogni, Bollati Boringhieri). Certo non siamo in presenza della grazia e della qualità letteraria di quelli consegnatici, per esempio, da Dolores Prato (Sogni, uscito postumo per Quodlibet), del resto ognuno ha l’immaginario che gli si confà, ma sicuramente anche per Adorno il sogno aveva un carattere di ricognizione e rimembranza di sè.

Rimane il fatto che dal punto di vista testuale l’invenzione dei sogni autorizza Filippi a stare in un terreno di scrittura tra il visionario e il sillogistico, in cui riecheggia una biblioteca fornita – con tutta evidenza – di alcune scritture novecentesche, quindi Artaud, Bataille, Deleuze, Derrida, lo stesso Benjamin, il Valéry lettore di Cartesio e ancora altri. I paradossi, legati pure alle circostanze raccontate, diventano così del tutto plausibili ma irreali un minuto dopo. È in questo limbo di ambivalenze che emerge la narrazione di corpi disobbedienti, siano essi umani o animali. Senza confusioni ma pur sempre con un’implicazione vicendevole.